“I vini artigianali sono quelli che nascono dall’attenzione contadina”. Se a dirlo era Luigi Veronelli, a ricordalo è Gaspare Buscemi viticoltore friulano, che di attenzione, nelle sue vigne a Cormas ce ne mette da oltre 40 vendemmie. Ed è con queste parole che si apre il convegno “Spirito artigianale e cultura collettiva” tenutosi a Ivrea durante le tre giornate del Rewine 2024, la manifestazione organizzata dai giovani vignaioli canavesani giunta quest’anno alla sua quarta edizione. Non sono quindi vini fatti con i piedi, quelli artigianali, “ma con la testa”, con quell’attenzione umana che diventa memento per non lasciare tutto nelle mani della natura, intervenendo con “cura e competenza”.
All’uomo artigiano, però, è richiesto anche qualcosa in più: “non deve solo saper fare, ma deve saper anche far fare e voler far sapere che cosa sta facendo” – è così che Oscar Farinetti invoglia Carema e il canavese ad uscire dalla serra morenica e dall’incavo dei suoi vini di nicchia. Ed è proprio su questa matrice che i giovani vignaioli canevasani stanno viaggiando, guidati anche da una comunicazione studiata e veicolata a mestiere. Parole allora come pilun, topia, muretti a secco o Picotendro si staccano da quei pezzi di montagna rocciosa e provano a parlare col resto del mondo, fatto di consumatori, sommelier e critica gastronomica. Con Carema che non è più solo quella terra di confine tra i monti, via Francigena che da Canterbury conduceva i pellegrini fino a Roma, ma che con il suo Monte Maletto prova a diventare manifesto dei suoi vini anche fuori dal suo territorio.
E si scopre allora che quei vini che si fanno tra gli anfratti concessi dalla roccia ridisegnano il profilo della montagna seguendo un ordinato scheletro architettonico (topia): piccoli terrazzi che dall’alto sembrano giardini ben curati, disposti gli uni sopra gli altri e mantenuti da muretti a secco. Macchie di verde irradiate dal sole a formare un tappeto di foglie disteso lungo i pergolati, sorretti da colonne troncoconiche (pilun), e che fanno ombra ai grossi tronchi del Nebbiolo di montagna, qui chiamato Picotendro.
Dal basso ci si arriva, invece, salendo antiche scale di pietra, con le montagne alle spalle e il rumore del letto della Dora Baltea in sottofondo. “Il resto è tutto bosco, ma in 10 anni abbiamo raddoppiato la superficie vitata. Da 13 a 24 ettari” dice l’ex presidente Gianmarco Viano (Monte Maletto) che da quest’anno cede le redini dell’associazione al giovanissimo Riccardo Boggio dell’azienda Kalamass.
Numeri irrisori per viticolture pianeggianti, ma grandi risultati per una viticoltura di montagna che conserva in se il significato stesso di eroico. Reso possibile solo attraverso la cooperazione umana. Altra grande assente nei vocabolari di molti viticoltori. Mentre qui, invece, anche la Treccani avrebbe di che scrivere “due anni fa c’è stata una siccità tremenda, eravamo al mare con i bambini e non potevamo ritornare subito. Sono andati alcuni dei ragazzi dell’associazione ad irrigare le nostre viti” – racconta una giovane viticoltrice che, insieme al marito, dal 2019 ha iniziato a produrre vino nel canavesano. Un cambio generazionale che ha fatto, allora, bene al territorio e che va di pari passo anche con il mutamento climatico. Due variazioni che sembrano generare un circolo virtuoso in questa terra “negli anni ‘80 l’acidità totale dei vini non superava i 10, massimo 11, oggi invece con le alte temperature i vini riescono a svolgere la malolattica e raggiungono anche i 6 di acidità” – osserva Buscemi – e questo significa vini pronti e godibili fin da subito.