Non è mai facile in Italia, in qualunque ambito portare cognomi importanti. Spesso possono essere macigni, oppure possono essere l’opportunità per riuscire a sviluppare una strada nel senso della continuità senza rinunciare a una propria visione. Sembra essere proprio questa la strada scelta da Simone e Andrea Foti. In un Paese in cui si è considerati giovani scrittori fino a 40 anni, questi due ragazzi sotto i trent’anni sembrano avere le idee molto chiare sul passato, sul presente e ancora di più sul futuro. Li abbiamo intervistati, cercando di parlare di loro, dei loro progetti e non (solo) del cognome che portano.
Partiamo dal vostro side project ,due etichette di vitigni alloctoni che ho avuto la fortuna di assaggiare da poco: come nasce il progetto?
Simone: Nel 2016 abbiamo deciso di creare una parcella sperimentale, per porci domande sul futuro. L’Etna sta cambiando, il suo clima sta cambiando. L’attività vulcanica ne modifica i suoli, quindi abbiamo cercato di trovare vitigni che si adattassero al nuovo scenario.
Andrea: Abbiamo deciso di piantare Savagnin, Riesling e Chenin Blanc, ma con il sistema di allevamento di qui: l’alberello etneo. Abbiamo visto che il territorio entra in questi vitigni e li declina in modo nuovo ed originale.
Savagnin vulcanico quindi?
S: Sì, sfruttando l’atipicità del clima che c’è a Milo, in cui si incontrano clima continentale e influenze mediterranee.
A: Aumentare la diversità nei vigneti e dire no alla monocoltura in vigna per noi è una questione vitale. Anche nostro padre, già nel 2005, aveva sperimentato con i vitigni internazionali in questa ottica.
Nel segno sempre di una continuità di visione, ma a modo vostro quindi?
S: Sì, per fortuna nostro padre non ci ha mai imposto nulla, ci lascia gestire il nostro modo di fare vino in totale autonomia.
A: Simone segue di più la parte agricola, e io di più la parte enologica. Ma è vero solo in parte perché tutti e due viviamo ogni aspetto.Ci piace seguire il più possibile di persona i nostri vini, anche all’estero, per essere sicuri che siano raccontati nel mondo giusto.
Da un lato storytelling e racconto in prima persona, dall’altro grande ricerca tecnica. Cose che non sempre vanno insieme, come ci riuscite?
S: Pensiamo da sempre che tutto parta dal know how tecnico e dalla conoscenza. Solo questo permette di trasmettere davvero in bottiglia il territorio.
A: Collaboriamo con un progetto dell’Università di Firenze, abbiamo anche un microscopio in cantina, ogni anno sappiamo quale ceppo di lieviti innesca le fermentazioni.
Sulle fermentazioni spontanee c’è tanta confusione…
A:. Noi le abbiamo sempre fatte. Prima lavoravamo molto con i Pied de cuve, oggi preferiamo che ogni mosto si esprima diversamente nella biodiversità di specie e ceppi che ne prendono il sopravvento. Riusciamo ad avere anche un’ attenzione in più, con un microscopio in cantina.
Non rimanete mai fermi quindi? La ricerca non si ferma mai?
A: Per noi questo aspetto è fondamentale, ed è alla base dello sviluppo di tutti i territori del vino. Qui c’è ancora troppa poca ricerca, pochi tecnici locali.
Fino a quando i tecnici dovranno arrivare da fuori, significa che il territorio non sta crescendo e che rimane una colonia, con vini pensati per essere venduti solo al di fuori.
Più ricerca e più competenze locali quindi?
A: Se ci pensi tutti i grandi territori di vino hanno sempre al loro interno un grande centro di ricerca o una grande università, il vino è ancora visto troppo come una cosa che si beve a tavola e che si fa da solo, mentre invece non si valorizzano competenze e il know how di chi sa farlo bene.
Quindi cos’è il vino, cose fare vino?
S: Quotidianità, sacrificio e competenza.
Cosa manca quindi?
A: Manca un vero supporto tecnico per i produttori. Bisogna valorizzare le intelligenze e le competenze locali. A breve sembra aprirà un corso di laurea in enologia alla Università di Catania. Questo è un passo nelle giusta direzione.
Pensiamo che in altri territori diversi dal nostro come quello di Marsala c’è un know how e una competenza locale diffusa che parte dell’università e valorizza i tecnici locali.
Come è cambiato il modo di fare vino negli ultimi anni?
A: C’è un ritorno a quello che Fabio Mazza (https:// www.instagram.com/fabiomazza__/) ha definito neo classicismo enologico. Prima c’era la moda di fare vini sghembi, anche sbagliati. Tutte le novità “strane” facevano moda, ora non più. C’è un ritorno al classico artigianale e chi non era classico ora lo sta diventando. Basti pensare che anche molti “produttori naturali” che non andavano al Vinitaly ora ci vanno per confrontarsi col mondo del vino classico, per essere non solo nelle carte dei vini di tutti i ristoranti e non solo in quelle dei cosiddetti bistrot. Sta arrivando il momento in cui si smetterà di etichettare il vino e si comincerà a berlo, berlo e basta!
Parlate spesso di continuità e costanza nel fare vino. Il vostro pubblico – chi compra una bottiglia con l’etichetta I Vigneri – cosa trova anno dopo anno nella bottiglia?
S:Trova storia, cultura, tradizione competenza territorio e persone. Persone che lavorano ogni giorno.
Si parlava di moda, di hype? Voi come vi ponete?
A: Seguire le mode ti snatura, ti impedisce di perseguire la strada che hai in testa. Bisogna seguire le proprie convinzioni, non le mode.
Una cosa che invece è oltre le mode è il cambiamento del clima? Come entra nel vostro lavoro? Che impatto ha sul territorio?
S: Partiamo dal presupposto che l’Etna è un territorio abituato ad avere tanti cambiamenti. Ci sono vigne su diversi versanti, che si sono sempre adattate a queste situazioni. Negli ultimi anni abbiamo visto gli eventi sempre più estremi e nuovi, ad esempio lo scirocco e piogge torrenziali che si spostano sul periodo primaverile.
A: L’Etna dal punto di vista climatico, si difende meglio di altri territori dal cambiamento, perché il cambiamento è nel suo DNA e nella sua storia.
Che soluzione vedete? Da quali pratiche sarebbe possibile cominciare per reagire ai cambiamenti?
S: Innanzitutto diversificare il più possibile, come i contadini hanno sempre fatto. Nessuno qui nello stesso vigneto ha mai fatto monocoltura nei secoli passati per poter sempre portare qualcosa a casa come raccolto.
Non posso dare una risposta complessiva, ma posso parlare del mio approccio quotidiano e delle piccole pratiche necessarie per far fronte alle sfide.
Ad esempio?
S: L’impianto ad alberello. L’alberello etneo che esiste da secoli, si difende molto meglio dai cambiamenti, perché ne ha già vissuti tanti nella sua storia. Chi oggi impianta nuove vigne senza tenere conto della storia si ritrova ad avere molti più problemi da gestire rispetto a chi fa agricoltura in continuità col passato.
Quindi cosa vedete nel futuro?
S: Nella profonda incertezza, la certezza è sempre nella storia e nella tradizione, usando le nuove competenze e le nuove informazioni per migliorare quello che si è sempre fatto. Gli stravolgimenti bruschi sono sempre negativi.
A: Cercare di fare delle scelte più equilibrate, in tutti gli ambiti delle nostre vite. Tutti dobbiamo fare scelte più sostenibili, non solo nella viticoltura, ma nel nostro rapporto con la Terra.
Il biologico? È o può essere una soluzione?
A: La sostenibilità deve essere una scelta di vita, non un espediente commerciale, deve essere fatto di etica. Le persone devono sapere innanzitutto cosa significa fare agricoltura. L’ agricoltura è una pratica sottrattiva. Il problema è che c’è tanta e troppa monocoltura. Lavorare in biologico non significa non inquinare ma impattare meno, creare un ecosistema più sostenibile possibile.
S: Il biologico non è solo un bollino su un prodotto ma va visto in una visione globale e olistica, che inizia dal non avere plastica in vigna. Pali in castagno o anche creando bei paesaggi naturali e puliti si fa sostenibilità.
Il futuro, come vi piacerebbe che fosse?
S: Sarebbe bello che l’Etna fosse fatta e vissuta di più da chi vive nel territorio, da chi lo abita. Il vino per questa terra è anche una forma di riscatto sociale, la possibilità di creare un ecosistema virtuoso che permetta di vivere ai territori.
A: Bisogna investire sempre di più in conoscenza e ricerca. Si dovrebbe dare la possibilità ai giovani di potere mettere a frutto le loro competenze ed essere ricompensati in modo adeguato.
Vi possiamo mettere negli ottimisti o negli apocalittici?
Simone e Andrea: Possiamo dire negli ottimisti. Chi vive sopra un vulcano attivo lo è per forza, da sempre. Perché sa che un giorno potrebbe finire tutto e vive il futuro sempre come una sfida.