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Vino e dintorni

“L’Etna nel cuore nel nome di mio papà Andrea Franchetti”: parla Benjamin, alla guida dell’azienda Passopisciaro

08 Aprile 2025
Benjamin Franchetti Benjamin Franchetti

Benjamin Franchetti è un figlio d’arte. Il padre Andrea, venuto a mancare qualche anno fa, è stato un anticonformista del vino, produttore eccellente, prima in Toscana con Tenuta di Trinoro e poi sull’Etna con la cantina Passopisciaro. E proprio sull’Etna il suo carisma è diventato determinante nella storia della rinascita del territorio vulcanico, dal punto di vista enologico e non solo. Un carattere solitario per certi versi, generoso e aperto alla condivisione per altri: il fondatore delle Contrade dell’Etna. Benjamin, oggi alla guida delle due aziende, ha una chiara visione del futuro. Lo raggiungiamo telefonicamente mentre ha davanti a sé circa cinquanta campioni, annata 2024, del vino simbolo dell’azienda toscana, Tenuta di Trinoro, quello stesso vino che è stato un diario di vita per il padre, che assaggiava da solo, lasciando che il suo pensare vi entrasse dentro. 

Investito del ruolo di direttore generale, Benjamin ci parla di una “sana e saggia continuità” come fondamento della sua direzione, con il coraggio di chi ha la consapevolezza del fare e con l’umiltà di chi sa tenere a bada la frenesia. 

Qual è il suo primo ricordo legato al vino? 

«Il vino è talmente parte della mia vita, che non è facile trovare il primo ricordo. Ma di certo ho memoria di una piccola cantina in costruzione in Toscana, in Val d’Orcia, nella nostra tenuta, la chiamavamo “casetta”, vicina a quella che sarebbe diventata l’attuale cantina. Avevo circa 4 o 5 anni, e ricordo quel cantiere in costruzione e tutti quei francesi che arrivavano per piantare, perché mio padre si fidava solo di chi veniva da Bordeaux. Si stava insieme in queste grandi tavolate, tutti a mangiare rane. Ce ne stavano tante nel laghetto vicino». 

E il suo primo approccio col vino? 

«Dall’età dei teenager e fino ai 20 anni direi quasi goliardico. Cominciai ad appassionarmi davvero dai ventisette anni in su. Oggi sto facendo il blend per il Tenuta di Trinoro 2024, e ho davanti a me 50 campioni diversi, e penso a quanto sia incredibile il vino. Mentre degusti, ti accorgi di questa palette di sfumature che alla fine compongono il quadro. Questo è ciò che rende il vino speciale. La passione per il vino è stata un processo. Lo è ancora. Ho iniziato fin da subito a bere vini sempre più buoni, e faccio fatica a bere altri vini». 

Conduce da solo l’azienda? 

«Sono alla guida dell’azienda come direttore generale. E mi occupo di tutto, dalla creazione alla vendita. Ma non sono solo, mi avvalgo di ottime persone che mi supportano in vari ambiti». 

Nella sua vita, si dedica solo al vino o fa altro? 

«In realtà, prima della scomparsa di mio padre, avevo avviato un’attività dedicata all’ortofrutta, fuori Milano, nel cremonese; un’azienda di nome Agricola Moderna che ha l’obiettivo di coltivare ortaggi a basso impatto ambientale tramite il vertical farming. La gestisco ancora». 

Come riesce a distribuire le energie? 

«Il segreto è circondarsi di persone valide». 

Come Vincenzo Lo Mauro, direttore di Passopisciaro? 

«Assolutamente sì. Lo Mauro non è solo il direttore ma è quasi il co-fondatore di Passopisciaro per la mia famiglia. E per me. C’era dal primo giorno. Decise di abbandonare tutto per seguire il sogno di mio padre. L’azienda cammina grazie a lui». 

Cosa ricorda della sua prima volta sull’Etna? 

«Ho una forte memoria delle prime Contrade dell’Etna, l’evento ideato da mio padre, e ricordo quelle giornate fredde con la montagna innevata, pranzi un po’ caserecci, il profumo delle ricotte fumanti e tutti in questa nostra casa, con una manciata di produttori ad ogni angolo a fare provare il vino». 

Suo papà ha investito in un territorio non scontato, lei è consapevole del fatto che è stato un artefice del successo dell’Etna? 

«Mio papà è stato uno dei contributori importanti del successo della rinascita etnea. Questo mi viene detto così tante volte che non posso non crederci. E, allo stesso tempo, conoscendolo, me lo immagino, perché era un uomo molto generoso. Eppure, il bello nel mondo del vino è che in teoria siamo tutti colleghi. È forse vero che se “nuovi” comprano sull’Etna, tu vendi meno, ma mio padre aveva un’idea di apertura indiscutibile, come me. Chi è arrivato dopo, ed oggi appartiene ad una generazione a metà tra me e mio papà, riconosce questa attitudine in mio padre, la sua capacità di motivare e di incentivare gli altri ad investire sull’Etna. Credo che questa sua natura abbia contribuito a creare un’immagine da fondatore». 

Come proseguirà la storia iniziata da suo padre, con quale visione? 

«Sono la seconda generazione. Mio padre è stato il fondatore. Il mio obiettivo è quello di essere, un giorno, parte di una famiglia storica del vino, con più generazioni. La mia idea, quindi, è quella di proseguire nel solco della continuità, e in questo momento parlerei di una “sana e saggia continuità”, perché stiamo attraversando un momento storico complesso. A volte, bisogna avere l’umiltà di tenere a bada la frenesia, stare fermi a guardare, continuare a fare eccellente qualità, mantenendo la tradizione, senza sposare i trend del momento. Di contro, investire sulla comunicazione, capire come essere attraenti per giovani, che non sono interessati al vino». 

A proposito di trend, si riferisce anche alla tendenza dei dealcolati? 

«Non li considero neanche. Cambierei lavoro, piuttosto». 

Qual è invece la sua idea di vino? 

«Quella di un vino che abbia un grande equilibrio e una bella struttura. I nostri vini, sia quelli di Passopisciaro che quelli di Trinoro, sono vini che riescono a mantenere eleganza e tensione, struttura e complessità. Restiamo fedeli al nostro stile, ai vini pensati da mio padre. Poi ci sono piccoli accorgimenti, se così si può dire. Per esempio, per mio padre il Passobianco di Passopisciaro era visto più nell’ottica della Borgogna, per me invece è più uno Chardonnay energetico, vulcanico, quindi nelle ultime annate c’è questo piccolo tratto». 

E la sua idea di Etna? 

«Io penso che sia un territorio che vive un momento di assestamento; c’è stato il boom e, come in molti cicli di vita, è seguita una discesa e ancora una risalita, ma più organica. C’è un sano riassestamento. Una cosa bella è che tanti hanno provato a fare il loro vino, ma si deve comunque riuscire a stare in piedi; e le aziende di successo stanno in piedi da sole. L’Etna si deve consolidare e deve diventare un punto di riferimento nella panoramica del vino italiano. Ma al di là di questo, bisogna fare chiarezza sul territorio, non solo per chi guarda da fuori ma soprattutto per chi ci sta dentro». 

Ma secondo lei, perché questa Etna piace così tanto? 

«Penso che sia per un insieme di cose, per il fatto che in un’isola come la Sicilia si trovi un vino di montagna, così elegante, fresco, vibrante. Piace molto questo aspetto e il fatto che il territorio è incredibile. In giro nel mondo quando racconto Tenuta di Trinoro parlo di noi, non della Val d’Orcia, quando racconto Passopisciaro parto da una foto dell’Etna, il vulcano più alto d’Europa. Se penso ai nostri vini ci sono differenze enormi tra contrada Chiappemacine, alla quota più bassa, 550 metri sul livello del mare, e Rampante, a oltre 1.000. Da una parte abbiamo un vino più Mediterraneo e dall’altra uno quasi alpino». 

Ci confessi una cosa: è vero che suo papà era astemio o è solo una leggenda metropolitana? 

«Ma no! Mio padre ci ha dato dentro tanto fino ai 60 anni. Poi ha smesso per ragione di salute. E allora, iniziò a bere poco, solo per degustare e fare il suo vino». 

Avete vini fuori dalla doc Etna: questo per voi è un problema? 

«Per lo Chardonnay no, perché chi lo cerca chiede Passobianco. E in generale direi che non è un problema. D’altra parte, i vini che finiscono prima sono quelli che stanno fuori dall’area della Doc. I nostri vini di contrada sono nominati con le iniziali delle stesse contrade, per esempio contrada R sta per Rampante. Al momento, per scelta, nessun nostro vino da contrada è Doc. Tutti Igt. Lì dove potrò però cambierò il nome e li farò rientrare nella Doc. Lo voglio fare perché si crea confusione con le lettere. Poi però una cosa va detta: bisogna essere obiettivi su dove sia la qualità sull’Etna. Ci sarà una ragione per il fatto che Rampante, fuori dalla Doc, finisce subito? A livello economico non mi cambia nulla, ma se l’Etna è attenta a dove sta la qualità vera, allora è un problema lasciare fuori certe contrade. Sono comunque battaglie che non mi metterei a fare». 

Parliamo di vendite, quali sono i vostri mercati più importanti? Ci sono cambiamenti? 

«È interessante osservare come cambino le cose. Fino a tre e anni fa l’America tirava, oggi non ci investirei, non solo per le tariffe, ma anche per le battaglie che si fanno per starci. Vige ancora quell’antica idea che dice “In America fai la grande fortuna”, ma non è più neanche vero e non devi svenderti pur di starci. Per noi conta per il 20 per cento, è importante ma non è l’unico mercato utile. Con Passopisciaro, per esempio, faccio più del 50% in Italia e di questo 50% la metà in Sicilia, che è quindi grande quanto l’America. L’Europa oscilla, il mercato tedesco è in calo ma forse si riprenderà, l’Asia un po’ sottotono. In crescita c’è il Medio Oriente ma è un mercato limitato». 

Come pensa che debba vendersi l’Etna? 

«Comunicando bene territorio e contrade. Se chiedi di Barbaresco e di Borgogna tutti sanno individuare le varie zone, se chiedi dell’Etna c’è chi conosce qualcosa, per caso. L’Etna necessita di chiarezza e serve una guida, qualcuno che traini: mio padre aveva iniziato così, spingendo con le Contrade. Poi naturalmente ti scontri con mille cavilli. E sul nostro Passorosso non c’è scritto Passopisciaro». 

Andrà a Contrade quest’anno? 

«Come faccio sempre. Come ogni anno.