Il giornalista Paolo Massobrio descrive il vino Doc come l’emblema del «cambiare tutto per non cambiare nulla». E cita un esempio virtuoso: De Bartoli. «Ma forse succede solo in Sicilia che a chi emerge gli vengano tagliate le gambe»
“Il Marsala
come
il Gattopardo”
“L’immagine del Marsala è esattamente uguale a zero. Per salvare questo vino forse non si dovrebbe essere in Sicilia”. Si esprime così, con rammarico, Paolo Massobrio, giornalista, critico enogastronomico de la Stampa, direttore di Papillon, autore del Golosario, la guida al buono dalle Alpi alla Sicilia.
Ha letto le dichiarazioni di Scienza sul Marsala, cosa ne pensa?
“Condivido la posizione espressa dal professore Scienza. Purtroppo. Ricordo che facemmo una decina di anni fa una degustazione storica al Vinitaly di Marsala, la condussi io, insieme a me c’erano Veronelli, Raspelli, importanti giornalisti di settore. Arrivammo ad assaggiare un Marsala del 1893. La considerazione che fecero in tanti è che era uno dei più grandi vini del mondo e che il Marsala era una storia di saperi, di legni, di grandi affinamenti. Se in Francia hanno lo Chateau d’Yquem noi abbiamo il Marsala. Figuriamoci che nell’800 in Piemonte la dote per la sposa era il servizio del Marsala. Tutto questo è stato cancellato. Ribadisco, ha ragione Scienza”.
Secondo lei quali sono le ragioni?
“Sono venuto in Sicilia, tempo fa ho fatto una crociera ed una tappa era dedicata al Marsala. Pensavo ci fosse un risveglio, un po’ di attenzione. Invece purtroppo ho dovuto constatare che alla fine hanno prevalso gli interessi spiccioli. Nelle carte dei vini il Marsala non si trova più. Nei ristoranti non viene offerto, non si è lavorato per niente su questo vino. Sembrava che avendo tolto il Marsala all’uovo ci fosse una ripresa. Secondo me il problema, devo ammetterlo, sono gli industriali del vino”.
Che intende?
“C’è un modo di ragionare che tiene in mente altre variabili che un consumatore non può immaginare, ci sono grandi aziende, interessi. Noi giornalisti del vino, figli di Veronelli, abbiamo iniziato a conoscere il Marsala di un grande produttore, Marco De Bartoli, per noi il Marsala rimane quello lì. Anzi è uno dei pochi Marsala che si trova nella carta dei vini. Penso che l’esempio di Marco De Bartoli dovrebbe fare riflettere gli altri produttori. Invece è stato accantonato e isolato in modo deciso. Però è bene che si sappia che lui e il suo prodotto sono il punto di riferimento dei gourmet. Forse succede solo in Sicilia che a chi emerge gli vengano tagliate le gambe”.
E sull’uso del Fine come aromatizzante per prodotti industriali?
“Non è un problema. Anche l’impiego in cucina, penso possa solo valorizzare. Anzi se uno usasse, per esempio, lo Chateau d’Yquem in cucina porterebbe vantaggio allo stesso vino. Non è detto che si debba usare un Marsala scadente. Per esempio c’è un’azienda in Santena che fa la salamoia di prosciutti con il Marsala di Buffa, ed è pregevole. Cucinare col vino è addirittura un genere, se la cucina siciliana o altre specialità contemplano il Marsala ben venga”.
E questo non crea quindi confusione nel consumatore che non individua il vero Marsala?
“Certo oggi siamo nella confusione e nell’anarchia, se pensiamo a tutte le tipologie sullo scaffale. Se c’è confusione però è perché non si è comunicato il vino nel modo giusto. Suggerire i momenti del consumo di Marsala non lo fa più nessuno. Con i formaggi sarebbe una via auspicabile”.
Il Marsala del futuro?
“Mah, forse si potrebbe pensare ad una Docg solo per la tipologia del Vergine, per indicarla come punto di eccellenza al quale fare riferimento. In questo momento però, devo essere sincero, non vedo futuro. Stiamo tutti denunciando delle cose, non vedo risposte però, non credo ci sia la volontà concreta di modificare il disciplinare. Il film del Gattopardo dà la migliore rappresentazione dell’attuale situazione del Marsala: cambiare tutto per non cambiare niente”.
Manuela Laiacona