Durante la Milano Wine Week 2019 a Milano, sotto la supervisione di Silvana Ballotta, Ceo di Business Strategies, si è tenuto il “Wine Business Forum”, l’evento dedicato all’incontro tra i più importanti stakeholder del vino italiano e i principali rappresentanti dei settori cardine della milanesità, come quello della finanza e della comunicazione.
Il Milano Wine Business Forum tenutosi lo scorso anno ha attestato la straordinaria capacità che ha Milano di catalizzare le energie di un settore che si interroga in continuazione su sé stesso. Il processo dinamico di trasmissione e di scambio tra esperti ha portato all’aggregazione di una molteplicità di idee diverse e all’elaborazione di una serie di proposte innovative. Quest’anno, il Milano Wine Business Forum ritorna ha puntato i riflettori sugli aspetti più attuali e sulle tematiche più dibattute del settore con l’obiettivo di diventare, come ha affermato Silvana Ballotta, “un osservatorio puntuale e programmatico capace di fornire supporto al settore e indicazioni a legislatori e istituzioni”. Sono stati allestiti cinque tavoli tematici su cinque sfide per lo sviluppo del vino, in cui esperti e imprenditori i sono confrontati condividendo una fotografia della situazione attuale e discutendo sugli obiettivi da raggiungere e gli ostacoli da superare.
TAVOLO 1 – Internazionalizzazione e marketing nell’era globale
(Partecipanti: Silvana Ballotta, Ettore Nicoletto, Roberta Corrà, Riccardo Pasqua, Paolo Borzatta, Andrea Felluga, Diego Saluzzo, Ottavio Cagiano de Azevedo, Riccardo Ricci Cubastro, Simone Pallesi, Alberto Serena, Maria Sabrina Tedeschi, Francesco Cirelli, Cinzia Balza, Armando Honegger, Stefano Zongrui Yu, Emilio Renato Defilippi, Carlo Carli, Laura Dassie, Alberto Cisa Asinari di Gresy e Casasco, Gaetano Marzotto).
Inizia così un confronto serrato che, a partire dagli input forniti da Ettore Nicoletto, Ad di Santa Margherita Gruppo Vinicolo e relatore insieme a Silvana Ballotta di Business Strategies, si concentra subito sulla risoluzione di un primo equivoco fondamentale: internazionalizzazione non significa esportazione. Spesso e volentieri ci dimentichiamo come queste siano due questioni distinte e pur avendo grande attenzione nei confronti della fase di commercializzazione verso l’estero e delle dinamiche proprie dell’export, troppo spesso manca l’attenzione e la spinta verso un’organizzazione sistemica di tutto il processo di internazionalizzazione, da implementare necessariamente a livello di sistema Paese. Come risolvere questo problema? Bisogna convincere lo Stato che il settore vinicolo è fondamentale per tutta l’economia perché perfettamente complementare a tutta l’offerta food del “Made in Italy” e concentrarsi sulla costruzione del “Brand Italia”: un marchio comune che trascini tutta l’industria agroalimentare e che generi processi di sinergia e complementarità virtuosi capaci di posizionare i nostri prodotti in una fascia di alta qualità. È qui che entra in gioco il marketing, punto cruciale di ogni processo di internazionalizzazione: continuando ad adottare strategie di vendita tradizionali, per cui ci siamo adagiati alla moda del “bicchiere di vino offerto”, non è possibile immaginare di raccogliere grandi risultati. Cultura e “Grand Tour”, esperienza diretta e convivialità, capacità di produrre bellezza e valore diventano così i temi chiave che, a partire dall’impegno e dal traino dei grandi gruppi del settore, dovremo imparare a far nostri per raccontare i prodotti grazie ad una narrazione laterale capace di colpire geografie e target tanto diversi tra loro.
Tutto però dovrà partire dal concetto di identità, dalla capacità di trasferire la nostra ricchezza e unicità sul mercato. Senza questo shift mentale è normale che tutto riporti al vecchio gioco dei Comuni, alla dispersione delle risorse e alle guerre intestine. Come sappiamo, infatti, in un Paese con oltre 600 denominazioni e con una struttura industriale frammentata, gran parte del successo del nostro settore passerà proprio dalla capacità di mettere sotto allo stesso cappello progettuale imprese familiari e grande industria, micro e macro. In questo senso le proposte emerse sono molteplici: dall’affermazione dei brand territoriali – come successo per Prosecco – alla proposta di far nascere grandi aziende “chioccia” capaci di traghettare i “pulcini” verso una crescita organica; dal miglioramento dell’efficienza nella logistica allo sviluppo di iniziative aggreganti e produttrici di valore. Perché, quindi, non immaginare che a partire da tutte queste considerazioni non si possa davvero passare all’azione, individuando un mercato e un contesto in cui generare una best practice capace di dettare la linea del settore nei prossimi anni? Una provocazione lanciata quando si stanno tirando le fila della discussione che, però, trova tutti i partecipanti concordi e allineati: l’obiettivo principale delle azioni di internazionalizzazione del vino italiano deve essere, senza ombra di dubbio, il mercato cinese. Lì i nostri “cugini” francesi esportano la stessa quota del mercato americano (oltre 1 miliardo di euro), mentre noi ci accontentiamo ancora di poche centinaia di milioni. In quel contesto, infatti, lo spazio da riempire è incredibile ma le sfide sono molteplici. E qui rientra in gioco Ballotta che, a partire dalla sua lunga esperienza in Oriente, racconta come funzioni effettivamente il mercato in Cina dove lo stesso concetto di “Made in Italy” oggi non esiste dato che le parole chiave ricercate da quel pubblico sono semplicemente Italia o, al massimo, alcune denominazioni di altissima qualità come l’Amarone o il Brunello.
In Cina tutta la comunicazione fatta per il mondo occidentale è da “buttare via” perché è necessario muoversi su altri codici e linguaggi. Parallelamente, poi, è necessario immaginare un percorso di medio-lungo respiro (10-15 anni secondo Yu, Ceo di Value China) fatto di formazione, conoscenza del mercato e, soprattutto, lavoro unitario e sistemico. Considerando le grandi mutazioni a livello globale, con una cura maniacale alle materie prime, è invece un vantaggio immediato il fatto che l’estrema regionalizzazione della cucina cinese sia il primo banco di prova per l’abbinamento con la grande varietà dei nostri vini. È così che, in chiusura del discorso, nasce l’idea di una “task force” indipendente e imparziale, che abbia il tempo per mettere insieme tutte le questioni esposte e porti avanti nelle sedi istituzionali e non le tematiche discusse durante la giornata. “Insistere, insistere e insistere” le parole chiave per riuscire a superare l’autoreferenzialità che troppo spesso ha colpito il nostro settore ed affermare, una volta per tutte, che noi italiani siamo davvero capaci a fare le cose per bene.
TAVOLO 2 – Finanza e credito
(Partecipanti: Ezio Castiglione, Barbara Ellero, Alessandro Fornai, Silvano Chiappo, Giuseppe Formisano, Alessandro, Fede Pellone, Roberto Bianchi, Francesca Bignami, Chiara Benericetti, Giuseppe De Carlo, Gabriele Beni, Massimo Reale, Nicola Corricelli , Alessandro Mutinelli, Giuseppe Liso, Massimo Sensi, Claudia Lelli)
Al tavolo dedicato alla finanza e credito si è discusso delle difficoltà che hanno i fondi di investimento a raggiungere le Pmi del settore, soprattutto tenendo in considerazione il ruolo centrale che la rete di piccole e micro imprese vitivinicole rappresenta per l’intera filiera. Inoltre, alla luce delle linee programmatiche per l’agricoltura, che prevedono un potenziamento degli strumenti di finanza complementare per investire in questo settore, si è parlato del rapporto esistente tra fondi d’investimento e aziende del settore; un rapporto che è ancora da costruire, più che altro basato sulla diffidenza, ma su cui negli anni sono stati fatti enormi passi avanti. Nel panorama italiano, come raccontato anche in altri tavoli, il settore vitivinicolo è composto da una rete di piccole medie imprese. Dal punto di vista dei fondi di investimento privati c’è sicuramente un particolare interesse, come dimostra anche la presenza di Claudia Lelli di Azimut al tavolo, tuttavia, come tiene a sottolineare Roberto Bianchi, Dg del Fondo Foragri, il problema dei prodotti finanziari dedicati a questo tipo di aziende è che non tengono conto delle esigenze di questo settore. “Non stiamo parlando di un mutuo, ma di uno strumento che entri nella governance, nel capitale della piccola azienda: è uno strumento che cozza con la struttura. Dove la gestione è per lo più familiare”. I problemi sono spesso rappresentati dalla mancanza di disponibilità da parte della proprietà di far entrare nel capitale aziendale soggetti diversi da quelli della famiglia, di condividere la governance con enti e istituti finanziari che hanno avuto anche poco a che fare con il settore vitivinicolo. “Bisognerebbe quindi capire la disponibilità e la voglia di intercettare questi strumenti, che oltre tutto si conoscono poco”, conclude Bianchi.
Tuttavia, ribatte Silvano Chiappo amministratore di Livio Felluga, gli strumenti di finanziamento non portano necessariamente a mettere in discussione la governance: ci sono strumenti diversi e diversi modi di agire sulla parte manageriale dell’impresa. L’azienda familiare è senza dubbio un grande valore, soprattutto nelle prime generazioni, quando c’è anche un intento comune di obiettivi. Questo non vale per le seconde generazioni, dove c’è più volontà di cambiare passo e quindi aprirsi all’utilizzo di nuovi strumenti di finanziamento per crescere. Per questo dovrebbe essere contemplata la possibilità di entrare come investitore in azienda, ma con un ruolo autonomo e indipendente; anche valutando la possibilità di entrare acquisendo una quota di minoranza. In quest’ottica l’imprenditore potrebbe vedere nell’acquisizione l’inserimento di una figura esterna, che abbia un ruolo proattivo e di accompagnamento al progetto che la Pmi già possiede, conclude Chiappo. Nel caso ad esempio di Giuseppe Formisano, che porta la testimonianza di Tasca d’Almerita, società vitivinicola storica con una storia lunga otto generazioni, all’azienda può giovare l’uso di prodotti finanziari. Tasca d’Almerita infatti ha deciso di aprirsi al settore finanziario, attraverso un progetto di mini bond come strumento di finanziamento e ad una serie di acquisizioni che lo stesso Formisano ha definito strategiche. Tuttavia sono pochi gli investitori che hanno un proprio programma di rating dedicato al settore vitivinicolo. La capacità di valutare gli asset biologici infatti pone grossi problemi. Esistono standard particolari di cui il settore finanziario deve tenere conto. Nel caso del magazzino, ad esempio, in genere maggiore è la merce conservata, minore è la vendita. Nel caso vitivinicolo invece non è così. Il vino invecchia, ne ha bisogno. Il problema è che c’è molta ignoranza da parte degli istituti di credito. Spesso il finanziamento del magazzino viene trascurato. Mentre è molto importante. I fondi devono darsi dei principi per poter valutare le diverse realtà per quelli che sono i valori rappresentativi, e non valutare un’azienda che produce vino come quella di un altro settore. Inoltre la valutazione finanziaria deve tenere conto del fattore climatico. Per circa sette annate, continua Formisano, l’azienda non ha potuto mettere il suo prodotto di punta sul mercato a causa del clima. Il 2017, ad esempio, è stata un’annata terribile, molto calda. La produzione è caduta di circa il 27 %. Per questo motivo non si può non considerare il fattore climatico, soprattutto tenendo in considerazione che non esistono strumenti per i produttori di tutelarsi in toto. Assicurare tutte le viti infatti costa troppo.
La difficoltà sta nel far parlare due realtà così diverse, afferma Barbarba Ellero, la moderatrice del tavolo, avviandosi alle conclusioni. Sono stati fatti dei grandi passi avanti, aggiunge Silvano Chiappo. Nel mercato italiano fino a qualche anno fa non si conoscevano i fondi di investimento. Adesso invece il settore agricolo si sta aprendo ad investimenti sotto forma di acquisizioni, piuttosto che di debito. Sta cambiando la volontà e la consapevolezza dell’imprenditore nei confronti di strumenti di finanza alternativi. Questo è dovuto in particolar modo al cambio generazionale, che sta avvenendo all’interno delle aziende del settore. Un cambio dovuto anche alla volontà di internazionalizzare, crescere ed espandersi nei mercati esteri.
TAVOLO 3 – Innovazione e sostenibilità
(Partecipanti: Stefano Zanette, Giancarlo Gariglio, Domenico Bosco, Marina Montedoro, Camilla Lunelli, Cristina Ziliani, Federico Pedrazzi, Carlo Squeri, Giacomo Manzoni, Matilde Poggi, Franco Adami, Massimo Gobbi, Marta Cotarella, Silvano Brescianini, Samuele Trestini, Olga Bussinello, Alberto Colombo, Maria Grazia Malatesta, Vincenzo Russo, Chiara Mattiello)
Apre la discussione Giancarlo Gariglio, moderatore del tavolo a tema innovazione e sostenibilità. Questo è uno dei temi più interessanti della giornata perché sostenibilità e innovazione sono temi ricchi di sfaccettature. Mai quanto oggi la sostenibilità ambientale e cambiamento climatico sono diventati tematiche di primo piano. A ricordare come la sostenibilità non è un tema che si possa rimandare sono proprio i giovani che erano in piazza la settimana scorsa. I consumatori di domani. Un primo scoglio che si incontra nel definire questo tema è: di cosa parliamo quando parliamo di sostenibilità? Per alcuni sostenibilità è fare biologico, per altri risparmiare, per alcuni ridurre l’utilizzo dei prodotti chimici e il trasporto pesante. A proposito dell’industria vitivinicola, ad esempio, la legge europea del ‘91 sancì l’idea che il biologico è togliere, ma non delineò un nuovo modello. Secondo Domenico Bosco, responsabile dell’ufficio vitivinicolo per Coldiretti, considerare la sostenibilità nelle tre accezioni (economica, sociale e ambientale) è fondamentale. In particolare, se non c’è quella economica non ci possono essere le altre due. Essendo un argomento trasversale e sistemico, su cui ci sono ancora dei dubbi, è importante educare alla sostenibilità, fare corsi sui prodotti biologici, diffondere informazioni al consumatore, perché è il più sensibile a questo tema. La maggior parte delle grandi etichette arriva al consumatore attraverso il ristorante. Il pubblico esercizio è dunque un player importante, dovrebbe essere maggiormente coinvolto e “utilizzato” come media per arrivare direttamente al consumatore.
A questo tavolo ci sono voci molto differenti (piccoli e grandi produttori, università) precisa Gariglio. “Ci siamo resi conto che da più parti la certificazione è vista come fondamentale e la richiesta è che essa avvenga in modo modulare. Non ignorando la peculiarità italiana di essere una terra variegata, ma anzi permettendo all’ultimo della classe di crescere”. Cambiando discorso Giacomo Manzoni, responsabile Agronomo Zonin, ci tiene a precisare che si tende a considerare la sostenibilità solo dal punto di vista ambientale, anche perché i consumatori hanno un’idea di sostenibilità legata al biologico e al biodinamico. Come Gariglio sposa la necessità di un accurato programma di ricerca e sviluppo e di puntare sulla formazione del personale. Molti dei presenti in sala infatti si trovano d’accordo sulla necessità del binomio formazione-informazione formazione, da cui deriva la competenza. Sostenibilità e innovazione sono l’una propedeutica all’altra: la prima è raggiungibile attraverso la seconda. Il problema è che l’innovazione va diffusa e spesso gli strumenti più innovativi non sono conosciuti dalle imprese. Entrano allora in gioco le associazioni professionali, i distributori, le Università, i produttori. Serve una squadra ben coesa. Le aziende agricole devono fare rete con i viticoltori, specialmente quando questi sono molto piccoli, in modo da informarli al meglio. Tuttavia il cittadino non è in grado di capire, ci sono tutta una serie di valori che ancora non si riesce a brandizzare. Ne deriva che ancora non si riesce a creare un valore aggiunto sull’etichetta della bottiglia e sulla reputazione dell’azienda. In questo senso è fondamentale chiedere una certificazione a livello nazionale, che sia declinabile attraverso diversi step e che possa avere la possibilità da parte di chi opera (coltivatore singolo, azienda agricola, consorzio) di trovare il suo punto di collocazione.
Per Stefano Zanette, presidente Equalitas, bisogna che sostenibilità e innovazione possano essere misurate, codificate e riconosciute da qualcun altro. Se prima il dovere era garantire al consumatore una ricerca qualitativa, ormai questo è un prerequisito che nessuno mette più in dubbio. Le associazioni agricole devono formare le coscienze dei piccoli viticoltori, altrimenti le regole dall’alto li spaventano, lasciando ansia sul risultato economico del vigneto. Va dunque finanziata la ricerca universitaria per migliorare non solo la qualità intrinseca del prodotto, ma anche l’impatto ambientale. Si sente sempre più forte la necessità di un passaggio alla sostenibilità ambientale non perché lo richiede il mercato, occorre guardare a tutti i processi, dall’impatto sul suolo, ai trasporti. A questo proposito, secondo Marta Cotarella, direttore Scuola Intrecci, se consideriamo che le Pmi sono la maggioranza in questo settore, sono poche le realtà che possono permettersi di ricercare e fare innovazione. C’è pertanto da una parte un problema di creare conoscenza, di diffondere le novità, dall’altra un problema di investimento. Ci vorrebbe un aiuto economico alle aziende per favorire l’innovazione. Per concludere la sostenibilità ambientale diventerà un benessere sociale e influirà sul benessere privato. Se la certificazione non è comprensibile diventa inutile. La richiesta di semplificazione è univoca, sia da chi la realizza sia da parte del fruitore di essa.
TAVOLO 4 – Commercio e protezione degli scambi
(Partecipanti: Davide Gaeta, Maurizio Montemagno, Stefano Ricagno, Maria Grazia Zedda Scalon, Francesco Mazzei, Luca Giavi, Davide Carusi, Andrea Ferrero, Costantino Cattaneo, Leonardo Galgani, Marco Zanolli, Guenther Giovanett, Paolo Coppo, Sara Armella, Loretto Pali, Martin Foradori)
Davide Gaeta e Maurizio Montemagno relatori del tavolo “Commercio e protezione degli scambi” avviano i lavori introducendo le tre grandi tematiche che rappresentano i principali vincoli da abbattere in termini di barriere fisiche, tariffarie e tecniche nel mercato internazionale. All’interno di questo panorama il ruolo delle dogane è determinante, perché le procedure in ogni singolo Paese cambiano in modo sostanziale. Viene spesso imposto un carico burocratico a livello di normative commerciali, che taglia le risorse e le energie dei produttori vinicoli. La sensazione è quella di una grande difficoltà nei confronti delle problematiche esistenti nei sistemi di gestione per favorire la competitività delle Pmi. Sono più di 30 anni che si sente parlare di semplificazioni dei processi, tuttavia poco è stato fatto e le difficoltà perdurano. In questi termini le sfide del futuro si delineano rispetto alla digitalizzazione della burocrazia e all’innovazione tecnologica, che impongono un radicale cambio di mentalità per il piccolo produttore in vista soprattutto della presenza del proprio prodotto sui mercati globali. Nonostante la complessità del contesto, molte sono le opportunità di crescita e sviluppo, dalla terzializzazione delle spedizioni internazionali mediate dai consorzi, alle nuove forme di tracciabilità della filiera agroalimentare offerte dalla blockchain, per certificare tutti i processi e le fasi di lavoro su tutta la catena produttiva e diminuire il rischio di frodi e truffe.
Il tema delle barriere fiscali risulta quanto più collegato alle dinamiche della politica economica, che nel commercio internazionale del vino sono determinate da un complesso sistema di accordi internazionali conclusi tra Unione europea e altri paesi del mondo, di cui un caso emblematico sono i dati straordinari delle esportazioni di vino dal Cile e dell’Australia in Cina. In questo ambito la situazione italiana risulta essere quanto più complessa, per la mancata azione di lobby presso le istituzioni. Inoltre l’incidenza fiscale implica l’incertezza della competenza sull’accisa che determina costo di servizio ulteriore difficile da valutare per l’imprenditore. Ad oggi gli accordi in essere tra diversi stati non sbloccano il mercato, come nei casi del Canada e Norvegia e Svezia. Il monopolio è una anomalia perché anche nelle spedizioni a scopo promozionale il dazio sulla singola bottiglia è molto alto. La barriera fiscale è anche politica, nell’attuale contesto infatti rimane difficile mettere d’accordo tutti gli interlocutori, in modo tale da ridurre o eliminare in modo univoco i vincoli che si oppongono agli scambi. In questo senso la Brexit o le recenti imposizioni degli Stati Uniti all’importazione dei prodotti europei, aprono orizzonti fumosi e incerti per il mondo del vino italiano. Eppure per sostenere le sfide del futuro si potrebbe guardare al modello francese in cui i consorzi di produttori, la politica e le istituzioni si muovono tutti nella stessa direzione per pianificare a medio e lungo termine. Come afferma Montemagno è necessario riunire gli stakeholder e accorciare le distanze tra le istituzioni per incentivare le forme associative.
Fare rete diventa il nodo centrale della competitività, perché sia le associazioni che i consorzi sono tenuti a contribuire, offrendo servizi aggiornati e percorsi di formazione del personale sull’ordinamento giuridico dei commerci internazionali. Una disciplina unitaria infatti anche all’interno della stessa Comunità Europea è risultato difficile da raggiungere, ma necessario soprattutto in vista della situazione geopolitica in cui ci troviamo. Infine in merito alla grande varietà di barriere tecniche, che riguardano, ad esempio, standard sanitari e le certificazioni specifiche per singolo Paese, sono sempre più utilizzate per proteggere i mercati nazionali. In questo senso il tema dell’etichettatura risulta essere la prima forma di tutela per la certificazione della qualità. Dal confronto tra i singoli imprenditori emerge l’esigenza di semplificare la materia, ipotizzando di distinguere in modo chiaro e univoco quali informazioni sono necessarie e a fronte dell’utilizzo delle tecnologie digitali cosa poter riportare a parte. A conclusione dei lavori ci si auspica che la certificazione del vino possa essere seguita direttamente dall’istituzione pubblica, attraverso l’Agenzia delle Dogane – organismo di controllo di altri prodotti italiani – per semplificare ai produttore vinicoli il processo di lavorazione e garantire al consumatore finale, l’effettiva autenticità e la qualità della bottiglia.
TAVOLO 5 – Trasformazione digitale e competitivà
(Partecipanti: Pietro Lanza, Andrea Rea, Karl Florian, Helmuth Köcher, Eleonora Guerini, Roberto Felluga, Tina Guiducci, Sergio Zingarelli, Gianluigi Nembrini, Carlo Rossi Chauvenet, Giovanna Lazzari, Roberta de Sanctis, Marcello Magaldi, Walfredo Della Gherardesca, Silvia Mariani, Luca Monzo, Chiara di Piano, Roberto Orofino)
La trasformazione digitale è il processo di integrazione delle tecnologie in tutti gli aspetti del business, un processo che comporta cambiamenti sostanziali a livello di tecnologia, cultura, operazioni e generazione di valore. Per sfruttare al meglio le tecnologie emergenti e la loro rapida espansione nelle attività umane, l’azienda deve sapersi reinventare, trasformando radicalmente tutti i suoi modelli e processi. Viviamo in un mondo di cambiamenti epocali, sottrarsi al digitale, pertanto, è impossibile. Le aziende vitivinicole devono affrontare i grandi mutamenti contemporanei per continuare ad essere competitive, sia sul mercato nazionale che internazionale. Occorre abbandonare i vecchi dogmi, e comprendere che il cambiamento è già in atto. Una trasformazione non solo tecnologica ma culturale, una rivoluzione generazionale che lega il virtuale al fisico, e che interessa tutte le filiere dell’agroalimentare e in particolare il settore vitivinicolo. Promuovere il vino attraverso i social media è il futuro, e l’Italia in questo momento è indietro. Vogliamo essere vittime o cavalcare l’onda? Siamo vicini a una sconfitta o a una grande opportunità? I consumatori non si accontentano più, vogliono essere indipendenti, confrontare i prezzi e le storie all’interno di una bottiglia. Si deve innovare il modello di business, tramite coerenza, trasparenza e attinenza. Un cambio di mentalità dal punto di vista produttivo, perché essere digitalizzati non vuol dire essere omologati, non è semplice sofisticazione. E non significa necessariamente divenire un’industria.
Le aziende tuttavia possono crescere enormemente grazie alla digitalizzazione, piccole imprese tramite il web sono cresciute a ritmi elevati. Il cambiamento si può subire o sfruttare a proprio favore. Non si può che investire nella promozione online se si vuole rimanere “sul pezzo”. Questa nuova comunicazione ha alzato la competitività, a tutti i livelli, per imporsi si deve scovare un proprio elemento identificativo e distinguersi in un oceano di proposte. Grazie al digitale ora siamo consapevoli che l’attenzione deve essere riposta sul consumatore, e solo in un secondo momento sul prodotto. Un capovolgimento importante, dopo decenni di indottrinamento sul protagonismo dell’articolo. I nuovi clienti sono sui social, non si possono ignorare, si deve sempre rimanere aggiornati e mantenere una certa curiosità. E così che nascono anche nuovi profili lavorativi come il digital export manager, che si occupa di dialogare con le piattaforme di vendita già esistenti. È basilare proporre il prodotto online e poterlo inviare al consumatore a domicilio. Occorrono fluidità, agilità, formazione, specializzazione ed equilibrio. Una metodologia da non sottovalutare è l’analisi dei dati. Saperli leggere, interpretare e riutilizzare è un’arma potentissima. Si possono capire i rispettivi consumatori, migliorando le mancanze e aprendosi a un pubblico più vasto. L’informazione non è più univoca, torna indietro. E allora il prodotto stesso deve essere parlante, attento alla sostenibilità ambientale e alla salute. Il digitale è rottura, la transizione verso una nuova epoca, non solo uno strumento tecnologico. Senza di esso rimaniamo nel Medioevo. Fondamentale, in questo cambiamento, è ritrovare un equilibrio stabile.
Le tecnologie blockchain, quindi, possono diventare un vantaggio competitivo per le imprese vitivinicole. Con blockchain si intende una sottofamiglia di tecnologie, o meglio un insieme, con caratteristiche precise. Queste sono: digitalizzazione, decentralizzazione, tracciabilità dei trasferimenti, disintermediazione, trasparenza e verificabilità, immutabilità del registro e programmabilità dei trasferimenti. La rivoluzione digitale della blockchain è solo agli inizi, le applicazioni sono tante e le potenzialità enormi. Certamente servirebbe un’istituzionalità, un sistema italiano; un accordo tra pubblico e privato attraverso il quale si possa individuare una strategia e fare sistema. Adottare questa soluzione è una grande opportunità per raccontare la storia di un prodotto, dalla vite alla bottiglia, per garantirne l’origine e le specificità. La scelta di puntare su questa soluzione si concretizza in una serie di controlli di filiera e i dati raccolti sul campo, verificati da altri enti di controllo, confluiscono in un vero e proprio racconto a cui ogni consumatore può facilmente accedere attraverso un codice posto sull’etichetta. Informazioni specifiche e verificate sulle caratteristiche e sui processi di produzione, finalizzate a favorire una scelta d’acquisto del tutto consapevole. Il consumatore, infatti, nel momento di scegliere la bottiglia ha in media 8 secondi di attenzione e una scelta vastissima. Avere un prodotto parlante fa tutta la differenza del mondo per vincere la concorrenza. La blockchain è così un sistema che va oltre il monitoraggio, ed è solo il primo passo di una strategia che punta a un utilizzo coerente e combinato di intelligenza artificiale e Internet. Il “Made in Italy” è molto ricercato all’estero, ma anche parecchio contraffatto. La sua difesa e valorizzazione passa dal digitale, e in particolare la blockchain è in grado di aiutare in termini di certificazione e controllo della qualità a beneficio di consumatori e produttori. Anche perché nessuno crede più alle innumerevoli certificazioni. Ma non ci si ferma solo a questo: tramite questo sistema si possono trasmettere anche emozioni, tradizione, storia, valori. È un vero e proprio nuovo strumento di comunicazione. Blockchain è sentirsi parte di un sistema, non è solo un cambiamento tecnologico, ma uno scambio di valori, è cultura e vantaggio sociale.
Una domanda in particolare ha creato discussione al tavolo di lavoro: in quali casi la scelta della disintermediazione commerciale risulta strategicamente corretta? La risposta non è semplice. La più accreditata è stata “Dipende”. La caratteristica fondamentale è la qualità, ovvero l’aspettativa del consumatore dentro quel prodotto. La promessa che si intende trasmettere. Il campionario dei clienti si è allargato, questo può accadere anche per il prodotto ma senza smarrirne l’identità. Il digitale avvicina e facilita tutto, perché fa vivere l’esperienza prima che questa avvenga: incentiva il consumatore e l’intermediario non è mai assente, ma virtuale e commerciale. Tuttavia la parte familiare, aziendale, risulta ancora importante. Il digitale aiuta e amplifica, ma non sostituisce definitivamente. I canali di vendita sono diversi e occorre seguirli tutti. Per questo motivo, rispetto a questo argomento, sarà fondamentale concentrarsi sempre di più sul metodo “et et et” e abbandonare una volta per tutte il modello “aut aut aut”.
C.d.G.