di Anna Gagliardi
C’è una Torino di corridoi e cunicoli ipogei, non solo celebri per Pietro Micca, ma custodi di tesori che ne impreziosiscono la storia. Capita così che nel cuore del capoluogo sabaudo, in quel “Del Cambio”, diciannovemila bottiglie trovino dimora a dodici metri sottoterra.
Sopra, in cucina, regna Matteo Baronetto, chef stellato che ha dato anima al nuovo corpo del ristorante prediletto da Cavour; sotto ci pensa il sommelier Davide Buongiorno a guidare i primi fortunati commensali tra blasonate etichette e piccoli meritevoli viticoltori. In tutto, oltre 2.200 referenze che fanno la storia del vino. Qui è stata inaugurata l’ultima “sala” del ristorante aperto nel 1757, ma a dire il vero è la più antica, visto che quelle cantine risalgono addirittura al 1600. Si tratta di un braccio di corridoio di mattoni, illuminato ad arte su un lungo tavolo in legno che può ospitare fino a 22 commensali (ma non meno di 8) su alti sgabelli. La formula è volutamente easy, a sdrammatizzare l’atmosfera che un luogo storico come quello teoricamente impone.
Chi sceglie di cenare lì viene accompagnato nella cave a scegliere il vino da sorseggiare. Dopodiché ci pensa Baronetto a ideare il menu adeguato, servito su vassoi da cui attingere. L’obiettivo è favorire la convivialità, andare oltre il rigore degli stucchi e dei velluti della Sala Cavour al piano terra, dove Camillo Benso amava pranzare, e vivere un’esperienza sensoriale plurima. Un’esclusiva che solo il Cambio (i torinesi omettono il “Del”) può offrire, grazie all’intreccio di storia e di stella (Michelin) tra il mistico e il profano. Per l’inaugurazione una verticale di Dom Pérignon rosé (2005, 2004, 2003) ha suggerito allo chef gamberi, vitello tonnato, acciughe e altri sapori mixati in un’alternanza di tradizione e innovazione. Da provare.