L’obiettivo “milione di bottiglie” è sfuggito per un pelo. Ma la produzione, a leggere i dati, è praticamente raddoppiata in pochissimi anni.
Stiamo parlando del Ruchè. Un vitigno raro e prezioso, ma da un po’ di tempo agli onori delle cronache. Oggi l’associazione dei produttori del Ruché di Castagnole Monferrato ha rinnovato i vertici. Al presidente Luca Ferraris, si affiancheranno per i prossimi quattro anni, sei consiglieri: Franco Morando (Azienda Montalbera), eletto vicepresidente, Franco Cavallero (Cantine Sant’Agata), Daniela Amelio (Amelio Livio), Gianfranco Borna (Cantina Sociale di Castagnole), Roberto Morosinotto (Bersano) e Roberto Rossi (Vini Caldera). Segretario è stato eletto Dante Garrone (Garrone Evasio e Figli). “Dopo che abbiamo formalizzato l’associazione – spiega il presidente Luca Ferraris – le cose sono andate sempre meglio. Prima eravamo solo un gruppo di amici e colleghi. Oggi l’associazione ci ha resi forti e ci ha consentito di approcciarsi al mondo della comunicazione in modo diverso. Abbiamo lavorato, e parecchio, sulla valorizzazione del territorio. E uno slancio lo dobbiamo anche alla Festa del Ruché che lo scorso anno ha fatto registrare oltre diecimila ingressi”.
Il Ruchè è un vitigno autoctono dei più rari tra quelli coltivati nel Monferrato astigiano. La sua storia reale si mescola con le leggende che circolano da queste parti. Forse deriva da un vitigno importato dalla Borgogna da monaci che li impiantarono vicino al convento oggi scomparso di San Rocco. Si dice che fu don Giacomo Cauda, parroco negli anni ’60 da queste parti, a trovare alcune piantine di Ruché mescolate nei vigneti di Barbera e Grignolino. Allora decise di provare a vinificarlo. E si rese conto delle potenzialità di questo vino. I terreni calcarei, asciutti, con elevata insolazione della zona di produzione regalano un vino di alta qualità, ma in quantità limitata. Destinato in passato al consumo famigliare, era il vino delle “grandi occasioni”, offerto alle persone più care, da sempre legato ai momenti belli della vita; nel tempo il Ruchè ha mantenuto questi tratti, facendosi riconoscere ed apprezzare in tutta Italia ed anche all’estero. Il Ruché ricevette la Doc nel 1987, che divenne Docg nel 2010. “Ma già dal 2000 il succeso di questo vino era sempre crescente – spiega Ferraris – Finalmente gli appassionati aprivano gli occhi sulle produzioni di nicchia e non pensavano solo a Barbera, che qui la faceva da padrona, o Barolo. Oggi l’associazione conta 22 aziende che rappresentano quasi il 95 per cento della produzione”.
(Luca Ferraris)
Sono 185 gli ettari coltivati a Ruché. La metà delle produzione rimane in ambito regionale. Il 20 per cento viaggia per l’Italia e il restante 30 per cento va all’estero, con Giappone, Stati Uniti e da qualche anno i paesi scandinavi, come mercati di riferimento. “L’interesse per il Ruché nell’area nord occidentale italiana è davvero molto forte – spiega il presidente – Pian piano però, stiamo vedendo una sempre più massiccia presenza sopattutto nelle grandi città italiane. La cosa che ci fa piacere e rabbia allo stesso tempo, è che nei ristoranti statunitensi il Ruché è molto conosciuto, a differenza del’Italia”. In chiusura, il capitolo Vinitaly con le nuove date fissate a giugno: “Credo che gli organizzatori del ProWein abbiano dimostrato una certa serietà ad occuparsi dell’emergenza Coronavirus senza “buttare” date a caso – dice Ferraris – Il Vinitaly non aveva altra idea che scegliere dei giorni per il riposizionamento della fiera e giugno è stata una scelta quasi scontata. Ma restano i dubbi. Perché ancora non è chiaro come finirà quella che io definisco forse impropriamente “pandemia”. Non credo che la cosa sarà ristretta a un paio di settimane, ma ci vorranno dei mesi. E non credo che gli importatori avranno voglia adesso di staccare dei biglietti per un evento di giugno. Chiacchierando con amici e colleghi il pensiero è quasi unanime e l’idea è quella di chiedere a Vinitaly a pensare bene a cosa farà”.
G.V.