di Alessandra Meldolesi
La notizia ha scosso l’intero mondo del food: i ristoranti del gruppo El Barri, leggi Albert Adrià, chiudono per fallimento con un debito di 8 milioni.
Si tratta di 5 locali, Tickets, Pakta, Enigma, Hoja Santa e Bodega 1900 (tutti stellati tranne l’ultimo), che avevano rappresentato un possente polo di attrazione per il turismo gastronomico internazionale. Enigma, in particolare, aveva inaugurato la possibile era di una costosissima cucina spettacolo, incarnando secondo alcuni il prototipo dell’avanguardia a venire. Ma Albert Adrià puntualizza che potrebbe salvarsi, dal momento che gli appartiene interamente (leggi questo articolo>). A colpire è il nome coinvolto, che tutti pensavano solidissimo; ma anche il luogo del fattaccio. La Spagna, infatti, ha parzialmente riaperto i suoi ristoranti dallo scorso mese di ottobre con regole diverse secondo le province in quanto a fasce orarie, dehor, capienza. Cosa succederà in Italia o in Francia, dove le chiusure sono state più radicali e durature ma la politica dei sussidi, soprattutto ai dipendenti, è stata analoga, coprendo solo in parte i costi fissi? Lo stesso governo Draghi sembra iniziare a preoccuparsene, se è vero che il prossimo decreto Sostegni dovrebbe essere in gran parte finalizzato a mettere una pezza sullo tsunami incipiente dei fallimenti.
Ma è davvero possibile che un ristorante solido possa arrendersi dopo 14 mesi di stop? La risposta è sì, quando lo chef non è patron (Adrià era socio dei fratelli Iglesias, che hanno verosimilmente seguito una ratio puramente imprenditoriale) e le prospettive parlano di una normalità che tarderà a manifestarsi. I ristoranti in questione vivevano di un turismo internazionale, la cui ripresa a breve termine appare quantomeno incerta. Qualcuno tuttavia avanza un’altra ipotesi: che questa sia mera pulizia dei debiti, una manovra di Adrià per ripartire altrove con una nuova società, senza la zavorra finanziaria e le banche alle calcagna. Le sue parole sono suonate sibilline, ma tutt’altro che definitive: “Ora traccerò il mio bilancio e deciderò se mi conviene o meno avere un ristorante”. Insomma chi vivrà, vedrà. Qualcosa tuttavia si può iniziare a ipotizzare sugli scenari futuri che attendono al varco la ristorazione. Le chiusure probabilmente si concentreranno nelle zone e nei format più dipendenti dal turismo internazionale, soprattutto nelle città d’arte. Mentre potrebbero vendere difficilmente la pelle le strutture familiari tipiche del Belpaese, dove si può stringere la cinghia ancora un po’, rimandando il redde rationem finanziario a tempi migliori. Più solidi, in ogni caso, i locali radicati nel territorio, considerato l’accumulo di ricchezza privata avvenuto in alcune fasce della popolazione non toccate dal lockdown.
(Toni Segarra)
Le chiusure porteranno verosimilmente con sé un’ondata di trasferimenti e nuove opportunità di business per i giovani cuochi e imprenditori. Ne ha parlato a suo tempo su La Vanguardia Toni Segarra, tracciando un parallelo fra la situazione attuale dei giovani cuochi e la rivoluzione francese, da cui, come è noto, nacque la ristorazione moderna. “Quando come i cuochi dei palazzi della nobiltà decapitata, si ritroveranno per strada, cercheranno il sostentamento in piccoli locali periferici che il terremoto avrà reso più accessibili. E porteranno in ogni angolo a tutte le persone curiose lo spirito di questa ristorazione prodigiosa, di cui solo le élite hanno beneficiato. Crescendo fin dove, chissà. È qualcosa che sta già accadendo. Il virus in qualche mese ci ha trasportato nel 2030, ma non ha inventato nulla… Da tutte queste cucine straordinarie guidate da cuochi straordinari sorgerà il talento che porterà uno spirito nuovo sulle tavole della grande maggioranza, propagato dal vento distruttivo della malattia. La prima grande rivoluzione della gastronomia spagnola è stata elitista e intensiva, la seconda sarà estesa e popolare. Un’ondata di felicità quotidiana nascerà dalla profonda tristezza di questi giorni di nebbia”.
Altri, meno ottimisti, paventano che a occupare i posti vacanti sia la ristorazione industriale delle grandi catene o perfino della grande distribuzione, che starebbe arruolando un esercito di cuochi sul mercato. In ogni caso non sarà un revival della ristorazione trapassata. Qualcosa si può già iniziare a capire guardando come si muovono i più smart, investendo anziché battere la ritirata: che la pandemia resti o meno un episodio circoscritto, giovani chef patron come Matias Perdomo e Matteo Rizzo non rinunciano al fine dining, ma lo circondano di satelliti che orbitano su business differenti. Sono format a fisarmonica, rosticcerie, pastifici, distribuzioni, street-food oltre che ovviamente delivery. Quella che si configura insomma è una ristorazione modulare, stile Ikea, per ora senza libretto di istruzioni.
(Mauro Uliassi)
Mauro Uliassi la vede così: “Dipende molto dal tipo di locale e dalla sua organizzazione economica, se è storico o se è gravato da investimenti recenti, per esempio. Chi pensava di pagare i debiti con i fatturati può entrare in difficoltà, bisogna vedere se i finanziatori sono disposti a coprire le perdite oppure no. So per certo che molti ristoranti d’albergo hanno chiuso perché le compagnie seguono logiche economiche, se investono sulla ristorazione con un progetto di rientro e non iniziano a vederlo, prendono provvedimenti immediati. Invece le attività a carattere familiare possono reggere, essendo legate alla buona volontà di chi ci lavora e può far fronte alla situazione, in assenza di debiti pregressi. Anche con riferimento alla banchettistica, dipende da quanto l’azienda è strutturata, ma in generale i contratti flessibili con i collaboratori, che magari lavorano nel fine settimana, in primavera e in estate, sono più leggeri. E non è nemmeno un discorso di clientela internazionale, che può essere facilmente sostituita. Lo scorso anno avevamo fatto una previsione drammatica, pensavamo di ridurre il nostro gruppo a un terzo, da 35 a 12 persone. Invece gli stranieri non sono venuti, ma gli italiani avevano voglia di godersi la vacanza e si sono riversati in massa sulle coste, disertando le città d’arte. Alla fine ogni situazione è a sé, per la diversità dell’offerta e dell’organizzazione economica. Noi apriremo verosimilmente a metà giugno, anche per paura che ci sia qualche contagio (ne abbiamo avuti due fra le giovani leve) e che si debba immediatamente richiudere. Stavo quasi pensando di organizzare un pullman e fare turismo del vaccino con tutta la brigata”.