di Alessandra Meldolesi
Poche cose hanno fatto gli italiani, dopo che qualcuno aveva fatto l’Italia, come quel volume sugli scaffali di ogni cucina, le pagine annerite di fumo e decorate qua e là da una ditata.
Una presenza affabile e ubiqua, nei focolari proletari e nelle magioni patrizie, dalle Alpi fino al canale di Sicilia, immancabile nei nidi degli sposini. Era il 1978, oltre 40 anni fa, quando il Reader’s Digest calcolò che vari editori ne avessero stampate 1.286.000 copie, facendone uno dei massimi best seller dell’editoria italiana. In ragione di tale piena attualità, colpisce che oggi l’autore della Scienza in cucina e l’arte di mangiar bene, al secolo Pellegrino Artusi, avrebbe compiuto 200 anni, né sarebbe mancata nel suo corposo manuale la torta giusta per la ricorrenza. Era nato infatti a Forlimpopoli, dove fervono i festeggiamenti, il 4 agosto 1820 in un’agiata famiglia patriarcale e in Romagna aveva trascorso l’infanzia con i suoi undici fratelli. Dopo gli studi universitari, mai culminati in una laurea, e il lavoro nel commercio, fra Forlimpopoli e Firenze, dove si era trasferito in seguito allo choc per il brutale assalto del brigante il Passatore, aveva tentato la carriera letteraria pubblicando una sfortunata Vita di Ugo Foscolo nonché le Osservazioni in appendice a trenta lettere di Giuseppe Giusti. Fino ad assaggiare il successo in cucina. “Il libro lo cominciò quasi per scherzo”, raccontò la fida domestica Maria Assunta Sabatini, detta Marietta, sodale dell’impresa insieme al cuoco Francesco Ruffilli. “Poi vide che gli veniva bene e vi si appassionò. Scriveva sempre. Si alzava la mattina alle otto e si metteva a tavolino fino all’ora del pranzo. Poi riprendeva a scrivere per qualche ora. Era un continuo alternarsi fra studio e cucina, penna e pentole”. Il successo arrivò come un fulmine, dopo le mille copie acquistate dal gastronomo a proprie spese.
Alla prima pubblicazione, datata 1891, seguì un’opera di continua revisione e arricchimento, che si protrasse fino al 1911, in quello che lo storico Alberto Capatti ha denominato il ventennio artusiano. Rivoluzionaria, infatti, non era solo l’attenzione tributata a un tema solitamente reputato triviale come la cucina casalinga, che in un paese vieppiù borghese cominciava a essere appannaggio di massaie sprovviste di servitù. La prosa di Artusi ha lasciato il segno per la disinvolta ironia e gli spessori mai pedanti, fino alla consacrazione datata 1970 con l’inserimento nella collana dei Classici di Einaudi, celebrato da una prefazione in cui Piero Camporesi collocava il volumetto fra i capisaldi della cultura italiana ottocentesca, insieme al Pinocchio di Collodi e a Cuore di Edmondo De Amicis. Quello che si ritrovava fra le mani era il diario di un popolo, denso di contenuti a valenza storica e antropologica.
Rivoluzionario era infine il metodo con cui Artusi aveva deciso di procedere alla titanica opera di codificazione della cucina italiana, in realtà focalizzata sugli epicentri familiarmente noti delle due regioni di residenza, con il sud e le isole relegate sullo sfondo. Ad aiutarlo a rimpolpare il repertorio, dalle originarie 475 ricette fino alle finali 790, furono 1.800 lettere di cui fu destinatario, in arrivo da persone comuni e perfetti sconosciuti disseminati per l’Italia. Al punto da fare de La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene un pionieristico esempio di user generated content, in una macchina del tempo annidata fra il forno a carbone e il micronde prossimo venturo.