di Giorgio Vaiana
Raccontare il mondo dell’olio di oliva italiano. Un mondo variegato, che cambia da regione a regione. E che, molto spesso, è sottovalutato.
Cronache di Gusto ha deciso di “entrare dentro” il mondo dell’oro verde, di fare un tour virtuale tra le varie regioni, per raccontare le cultivar, gli oli che ne derivano, strategie e potenzialità. Lo faremo guidati da Tiziano Caruso, ordinario di coltivazioni arboree dell’università degli Studi di Palermo e grande conoscitore del mondo olivico italiano e mondiale. Dalla Sicilia, passando per la Calabria, la Puglia, la Toscana, le Marche e altre regioni ancora, racconteremo con “pillole” velocisissime le varie tipologie di oliva, gli oli prodotti e le loro caratteristiche. Un modo per saperne di più.
Oggi, però, spazio a degli accenni generali. Per comprendere al meglio la qualità di un olio di oliva bisogna avere chiare tre caratteristiche fondamentali, spiega Caruso: la varietà, il grado di maturazione (ossia quando vengono raccolte le olive) e le tecnologie di molitura. “Noi dobbiamo sempre ipotizzare – spiega il professore – che tutto venga fatto a norma, quindi la raccolta al punto giusto di maturazione (che per il professore è all’invaiatura, ossia quando circa il 50 per cento del frutto assume un colorazione violacea), che le olive non siano rimaste per tre giorni dentro un cassone all’interno di un piazzale prima di essere molite e, successivamente una perfetta conservazione”. Proprio su quest’ultimo punto il docente si sofferma: “Togliamoci dalla testa i retaggi del passato – dice – Ossia quello che ci dicevano i nostri nonni, che il contenitore perfetto per conservare l’olio è la giara di vetro. Io vi dico, invece, che è il peggiore. I contenitori perfetti sono quelli di acciaio inox e le bottiglie ambrate. Meglio, poi, se di piccole dimensioni”. L’olio extravergine, infatti, teme l’aria e la luce e tende ad ossidarsi velocemente. “Al contrario del vino – dice Caruso – un olio più rimane in bottiglia o nei contenitori più perde le sue qualità. L’olio è perfetto a bocca di frantoio, ossia appena molito. Poi, giorno dopo giorno, perde le sue caratteristiche”. Altra “leggenda” sfatata dal professore: raccogliere le olive più mature per ottenere più olio. “Le olive vanno raccolte verdi – dice – Nei tempi passati si diceva “più pende più rende”, che stava a significare che più un’oliva veniva lasciata nell’albero più produceva olio. Questo è vero, ma da test fatti, un’oliva matura produce l’1, al massimo 2 per cento di olio in più rispetto ad un’oliva più verde. Di contro, il 20 per cento delle olive mature, per il vento o per la pioggia, finiscono a terra. Quindi non mi pare che ci sia un buon compromesso”.
(Tiziano Caruso)
A proposito di raccolta, Caruso espone un problema: “La raccolta a mano a breve non si potrà più fare – dice – In primis perché costa tantissimo e poi perché non c’è più gente disposta a farla. Oltre che in Italia è vietato salire sugli ulivi”. E allora? “Si deve ripensare tutto – dice Caruso – Oggi ci sono degli agevolatori, i classici pettini meccanici che, di fatto, sostituiscono le mani. Ma che in realtà provocano molti danni alle piante. Infatti rompono la nuova vegetazione e predispongono molto la pianta all’alternarsi dei raccolti, oltre che alle malattie da funghi e batteri. Dal punto di vista della qualità dell’olio, questo sistema non influisce per niente. La qualità dell’olio, invece, viene un po’ alterata dai vibratori da tronco. Perché tendono a cadere in maggior parte le olive più mature. Ma per usare questi macchinari bisogna avere una forma di allevamento adatta. Ed in Italia sono pochissimi i casi. Un vibratore, per esempio, non si può usare negli antichi ultiveti di nostro nonno: si rovinerrebbe la pianta e si raccoglierebbero pochissime olive”. Tecnologia, invece, molto usata in Spagna: “Per questo loro sono molto più competitivi – dice Caruso – e questo influenza i prezzi. Gli spagnoli hanno grandi superfici (due volte e mezzo quelle italiane) e una concentrazione dell’offerta. Il frantoio spagnolo è una vera e propria industria, quelli nostri (in Italia sono circa 600, un numero impressionante), sono un po’ artigianali”. La Spagna, dunque, può contare su una grande capacità produttiva, una buona industria di trasformazione e l’associazionismo fra i produttori. Oltra ad una grande capacità di offerta sul mercato. E quindi sono loro a fare i prezzi. “Per non parlare della Tunisia – aggiunge Caruso – Loro non hanno la tecnologia spagnola, anche se si stanno attrezzando, ma hanno costi di produzione bassissimi, come la manodopera e il costo delle terre, oltre che dell’energia. Quindi possono praticare prezzi più bassi. In Italia, chi vende l’olio a meno di sei euro ci rimette”.
E allora come competere? “Noi produciamo “Made in Italy”, uno dei marchi più importanti e riconosciuti nel mondo – spiega il docente – Dobbiamo far comprendere, con forme di marketing e comunicazione adeguate, che il nostro olio è diverso dagli altri, non dire che è più buono. Perché vi assicuro che ci sono oli spagnoli e tunisini di altissima qualità”. Il mercato italiano dell’olio extravergine, in realtà, è quasi di nicchia: “Noi produciamo, nelle annate migliori, circa la metà del’olio che poi vendiamo – dice Caruso – Quindi imbottigliamo in Italia con olio proveniente da paesi europei o extraeuropei. Gli altri paesi riescono a sostenere la filiera, noi, invece no”. Dopo la raccolta le olive arrivano al frantoio: “Una fase cruciale – dice Caruso – Dallo stesso oleificio e con le stesse olive possono uscire diverse tipologie di olio. Questo perché cambia il grado di maurazione”. Le olive andrebbero tenute nei grandi cassoni al massimo 24, “meglio se a temperatura controllata e comunque mai sopra i 25 gradi – dice il professore – Quando vi capita di essere in un frantoio, provate a infilare la vostra mano tra le olive nei cassoni e sentirete parecchio calore. Questo perché le olive cominciano a fermentare. Questo riscaldamento e la contemporanea emissione di anidride carbonica, sono i responsabili di alterazioni dell’olio”.
Due le tecnologie di estrazione che esistono: a tre fasi o a due. In quella a tre fasi, si aggiunge acqua, durante il percorso di lavorazione in quantità variabile tra il 40 e 50 per cento del peso delle olive. Alla fine da una parte uscirà l’acqua, dall’altra l’olio e da una terza la sansa abbastanza umida. “Non è la tecnologia che preferisco – dice Caruso – l’acqua lava l’olio, ossia lo depura da alcune sostanze che l’olio contiene e che sono idrosolubili, come i polifenoli, oltre ad eliminare parte dei profumi dell’olio. Si tratta di una tecnologia tra le più usate in Italia, ma da un punto di vista della qualità non premia molto. Premia di più la quantità”. L’altra tecnologia di estrazione è quella a due fasi, ossia in assenza di acqua. “L’olio quindi non subisce questa sorta di lavaggio – dice Caruso – Avremo un olio molto profumato e ricco di polifenoli”. L’Italia è il secondo paese al mondo per terreni coltivati ad ulivi. Il primo è la Spagna. Da noi ci sono circa un milione e 150 mila ettari di uliveti con una produzione che, nelle annate migliori, raggiunge le 500 mila tonnellate. Puglia, Calabria e Sicilia sono le regioni in cui si produce più olio extravergine di oliva. L’olio è un alimento, che però rientra tra i condimenti. Fa parte della categoria dei grassi. “E non è vero che non dobbiamo ingerire grassi, è la cosa più sbagliata – dice Caruso – Una dieta equilibrata prevede una dose giornaliera di carboidrati, proteine e grassi. La quantità di grassi raccomandata varia dal 20 al 30 per cento al giorno e quelli contenuti nell’olio sono tra i migliori. L’olio ha una grandissima pecentuale di acido oleico (fino all’80 per cento, ritenuto un grasso nobile) e i famosi polifenoli, degli antiossidanti che proteggono l’organismo umano da fenomeni degenerativi”.