(Vigneti a Valdobbiadene – ph Arcangelo Piai)
di Daniele Cernilli, DoctorWine
Parafrasando un delizioso dialogo di Umberto Eco, che però si riferiva a Pinocchio, provo a spiegare una delle questioni vinose italiane delle quali più si parla negli ultimi mesi.
Di recente alcuni produttori di Valdobbiadene hanno proposto di eliminare la dizione “Prosecco” dalla Docg alla quale appartengono, o comunque di poter fare a meno di quel termine per i loro vini. Questo perché nella concezione più diffusa e anche per vaste fasce di prodotti, il Prosecco è accomunato a un vino frizzante e dal prezzo contenuto, un “prosecchino”, insomma. E molti dei vini di quel genere sono ormai dei Prosecco Doc, non Docg, che provengono da sterminati vigneti delle pianure venete e friulane, con rese maggiori e costi di produzione molto più bassi. E qui si apre uno scenario complesso e di non facile interpretazione.
Sotto la terminologia Prosecco, infatti, sono prodotte e commercializzate circa 550 milioni di bottiglie, un mare, ben più dei Cava spagnoli e degli Champagne. Quello che preoccupa, con qualche ragione, i produttori della Docg di Conegliano Valdobbiadene è il fatto che esiste un appiattimento dell’immagine e del consumo di Prosecco verso il basso, e loro, che hanno vigneti collinari, talvolta ripidissimi, come nel caso delle Rive e di Cartizze, con rese molto più basse, costi di produzione ben più elevati e qualità media decisamente superiore, rischiano di subire un abbraccio mortale dai prosecchisti della pianura. Il rapporto di produzione, peraltro, attualmente è di una bottiglia a Docg ogni cinque a Doc, e si è molto ampliato negli ultimi anni.
Come in una sorta di Legge di Gresham applicata al vino, anche in questo caso sembrerebbe che “la moneta cattiva scacci quella buona”, citando il principio e mutatis mutandis ovviamente, o almeno è questo che temono i produttori di Valdobbiadene in primis. Quindi c’è la necessità si smarcarsi. E questa esigenza è stata esplicitata con una proposta della Confraternita di Valdobbiadene attraverso il suo Gran Maestro Loris Dell’Acqua tesa alla rinuncia del termine Prosecco per la Docg di Conegliano Valdobbiadene.
Una presa di posizione molto drastica che, secondo alcuni, Primo Franco in testa, rischierebbe – come si suol dire – di buttare via il bambino con l’acqua sporca del bagnetto. Secondo lui, infatti, che è una delle icone di Valdobbiadene, il mare di Prosecco Doc rappresenta un apripista per vini di maggiore qualità e di maggior prezzo. Bisogna solo mettere meglio a fuoco la questione, ma sarebbe impensabile rinunciare a un nome che ha fatto breccia nell’immaginario collettivo internazionale e rappresenta ormai un “brand” territoriale fortissimo. Oltretutto già con l’attuale disciplinare sarebbe possibile non mettere il nome Prosecco sugli spumanti che si avvalgono della Docg, e la cantina Col Vetoraz già lo fa. Perciò non si capisce perché voler imporre delle scelte drastiche anche a chi non le condivide, non lasciando liberi i vari produttori di operare come la legge peraltro già consente.
È difficile entrare nel merito, esistono ragioni da entrambe le parti, e forse sarebbe il caso che se ne discutesse in modo ragionevole e senza creare opposte fazioni. Di certo i Prosecco di Valdobbiadene, Conegliano e anche di Asolo sono quelli riservati a un pubblico più attento alla qualità mentre la maggior parte dei Prosecco Doc sono invece molto simili a delle “commodity” e hanno un mercato assai diverso. Un nome unico, o comunque analogo in buona parte, e due prodotti ben distinti. Prosecco uno e bino, insomma. Per tentare di capirci qualcosa, rischiarando la mente, intanto mi apro un Grave di Stecca 2014 di Primo Franco, che è fatto con la glera, a Valdobbiadene, è uno dei vertici qualitativi di questa tipologia e non ha alcuna di queste denominazioni. Che vuol dire smarcarsi…