di Alessandra Meldolesi
Disgustosi, ripugnanti, vomitevoli.
L’idea di mangiare insetti difficilmente provoca entusiasmi e sprigiona un fiotto di acquolina, eppure in un passato assai remoto i nostri antenati non cacciavano solo bisonti e cervi, come effigiato sulle pareti delle grotte, ma anche lucertole e grilli. Lo ricorda l’antropologo americano Marvin Harris, che di questo cambiamento appunto antropologico offre una chiave di lettura convincente. Cosa è successo? È successo che gli insetti hanno cessato di essere “buoni da mangiare”, e non buoni tout court, nel momento in cui il bilancio fra il loro beneficio nutrizionale e gli sforzi necessari per la cattura a certe latitudini ha iniziato a mostrarsi decisamente sfavorevole. Un conto è correre chilometri per una carcassa di ungulato, un’altra per un’impalpabile farfalla. Tanto più che alcuni contengono sostanze indigeribili (la chitina di ali e zampe), possono evocare la putrefazione o una condizione di miseria che tutti aspirano a rimuovere dal subconscio collettivo.
Le urgenze dei tempi in cui viviamo, tuttavia, li hanno riportati alla ribalta della tavola. Lo sancisce la recentissima apertura dell’Unione europea: la Commissione Europea ha proposto di consentire l’uso di vermi della farina gialla essiccati come alimento e dopo accurate verifiche da parte dell’Efsa, Agenzia Europea per la Sicurezza Alimentare, gli stati membri hanno detto sì. L’uso potrà avvenire tanto come snack, tal quali, che in forma di farina proteica per le più varie preparazioni, dai biscotti alla pasta.
Non è certo qualcosa di inatteso, ma la conseguenza di numerose pronunce Fao su fabbisogni planetari e riserve nutrizionali che abbiamo snobbato per millenni: mentre miliardi di cinesi, che le cavallette non le hanno mai disdegnate, iniziano giustamente a pretendere la loro razione di bistecca quotidiana, l’alimentazione del pianeta si fa sempre meno sostenibile, considerata l’impronta di carbonio degli allevamenti di bestiame. Anche la pandemia, risvegliando le coscienze sul tema degli equilibri planetari, potrebbe averci messo del suo, seppure in modo ambivalente, visto che produrrà una maggiore reticenza agli avventurismi alimentari e rallenterà la crescita demografica mondiale, che anziché raggiungere gli 11 miliardi previsti si fermerà a 9. Ma siamo solo all’inizio: allo studio, insieme a precauzioni su eventuali allergie, c’è già l’apertura a grilli e cavallette.
Niente di nuovo, c’è da dire, al di fuori di Europa e Nord America, visto che negli altri continenti il consumo di un migliaio di specie, confinato perlopiù agli indigenti, non si è mai arrestato. E neppure per noi foodies, visto che sono stati proprio alcuni fra i più grandi chef del mondo a sdoganare l’argomento. Non solo perché la cucina si è fatta globale, e lambendo il Sudamerica ha sollevato nel suo gorgo formiche culone e larve varie, in cerca dell’effetto novità e dei titoli sulla stampa specializzata; ma perché un cacciatore di farfalle come René Redzepi, forte delle ricerche del nostro Roberto Flore, ne ha fatto un terreno di esplorazione per sensazioni sicuramente dirompenti, che ha forse pagato in termini di critica. La cucina, si sa, è una forma d’arte vincolata sotto molteplici profili, innanzitutto dalla coazione alla “bontà” e alla “piacevolezza”, che in pochi sono disposti a oltrepassare, se non simbolicamente. Eppure il disgusto, ormai lo sappiamo, apre le porte a sensazioni più penetranti, che coinvolgono il senso di pericolo e i tabù alimentari connessi all’allotriofagia, disturbo dell’appetito caratterizzato dal desiderio di alimenti ripugnanti. È un po’ la frontiera fra avanguardia e avanguardismo, ricerca e coazione allo shock.
Difficilmente la cucina, che dipende totalmente dal mercato, potrà mai mimare un horror, mentre dai tempi di Escoffier si diverte a emulare il Lohengrin (e per quanto mi riguarda, rischierebbe il doping emozionale, quando il gusto dovrebbe essere il solo a parlare). In questo senso ci potremmo trovare di fronte a una prima volta, con l’alta ristorazione che indica il cammino alle proprie comunità e gli chef assurti a ruoli inopinati. Vedremo la risposta del mercato. Di fatto quanti di noi infilerebbero nel carrello del supermercato il loro branzino di allevamento, se sapessero che è stato alimentato (come già avviene) con un’appetitosa farina di lepidotteri?