(ph Vincenzo Ganci)
Il Regno Unito, terra di solidi legami con la birra, sta imparando a bere il vino. E – a leggere i dati degli ultimi 5 anni – beve sempre più italiano, con un'autentica impennata delle bollicine di prosecco e affini.
Lo conferma un rapporto realizzato a cura dell'Ice e della sezione per la promozione del commercio dell'ambasciata d'Italia, e illustrato dal direttore della sede londinese dell'Italian Trade Agency, Roberto Luongo. La premessa, di ordine generale, sottolinea come il mercato britannico – competitivo e aperto, data la necessità di importare da tutto il mondo a fronte di una produzione locale di fatto residuale – si consolidi come il terzo sbocco mondiale per il vino made in Italy (secondo in Europa) dopo Stati Uniti e Germania, con un valore annuo indicato per il 2017 a 763 milioni di euro. In termini quantitativi, la penisola ha superato tra i fornitori del Regno persino la Francia, in passato “semimonopolista”, con oltre 303 milioni di tonnellate di prodotto esportate l'anno scorso contro gli oltre 221 milioni australiani, i 189 circa francesi, i 135 spagnoli e i 111 milioni e spiccioli provenienti dai vigneti degli Stati Uniti. In fatto di valore Parigi resta invece in pole position – a causa del costo medio delle sue bottiglie di vino fermo (o tranquillo) e ancor più dello champagne tra i frizzanti – con ricavi pari nello stesso 2017 a 881 milioni di sterline contro i 628 dell'Italia, i 256 della Nuova Zelanda, i 243 dell'Australia o i 238 della Spagna. Ma anche sotto questo profilo la forbice si è enormemente ridotta, se si considera che nel 2013 i vini francesi esportati oltreManica 'pesavano' per un miliardo e 125 milioni di sterline e quelli italiani per 534 milioni.
Il rapporto evidenzia inoltre una curva positiva costante di crescita delle forniture italiane a livello di ricavi negli ultimi 5 anni. Dato che si riproduce anche sul piano quantitativo con l'unica eccezione di un rallentamento fra il 2016 e il 2017: ma sullo sfondo di un calo generale di consumi che ha riguardato tutti e cinque i primi Paesi fornitori. Scorporando le cifre, si osserva peraltro un assestamento in leggero ribasso dell'export di vino “tranquillo”, al suo picco nel 2014. Compensato tuttavia dal boom del vino frizzante (caro ormai a una vasta platea dei sudditi di Sua Maestà e non solo alla retorica di una Brexit tutta “rose e fiori” sfoderata a più riprese dal ministro degli Esteri britannico, Boris Johnson): un settore in crescita costante fino a rappresentare il quintuplo delle forniture di champagne e quasi a eguagliare nel 2017 il valore economico di mercato delle costose bollicine francesi. Il tutto – a dispetto di ricarichi stimati in media al 40% da parte degli importatori, al 50% dai negozi e addirittura fino al 300% nei ristoranti – sullo sfondo di un interesse in piena ascesa sull'isola per la cucina italiana e mediterranea, come ricorda l'Ice. E di “più frequenti periodi di svago nei Paesi di tradizione vitivinicola che hanno contribuito a modificare gli stili di vita di una parte significativa della popolazione”. Un'ondata che – Brexit o non Brexit – può essere cavalcata ancora dai produttori, si rileva nel rapporto: puntando sia sui supermercati e sul consumo 'di base', sia sulla ristorazione d'alta gamma e su una clientela emergente sempre più raffinata aperta a “nuovi vini e nuove combinazioni”.
C.d.G.