di Titti Casiello
A la Morra il Barolo è femminile e morbido, a Serralunga è maschile e austero, a Monforte d’Alba è l’equilibrio. Ma alla fine a questo sono servite le Mga?
Con questo astruso acronimo che sta per Menzioni Geografiche Aggiuntive (e oggi diventato ancor più impronunciabile con quello di Unità Ga) vengono indicate quelle aree delimitate ufficialmente all’interno della denominazione del Barolo e che a grandi linee possono essere equiparate più o meno ai cru francesi. Tutto nacque nel ‘61 quando sul mercato italiano comparivano, timidamente, le prime bottiglie di Barolo “Bussia” di Prunotto e quelle di Barolo “Rocche di Castiglione” di Vietti. Vale a dire i primi produttori a riportare in etichetta la zona precisa di provenienza delle uve. Non era ancora un fenomeno, ma da lì a poco si iniziò a sentire l’esigenza di creare uno strumento in grado di regolamentare e valorizzare quei vigneti considerati più vocati. Fu Renato Ratti, storico produttore langarolo, ad aprire le danze, pubblicando negli anni ’80, una dettagliata mappa delle sottozone del Barolo e del Barbaresco. Una meticolosa ricerca che fu, poi, affidata all’uomo delle mappe, Alessandro Masnaghetti e terminata con la pubblicazione di “Barolo Mga – L’Enciclopedia delle Grandi Vigne del Barolo”. Quello di Barolo e Barbaresco fu un lavoro da certosino, che di fatto andò a mettere nero su bianco una distinzione che era già acquisita per tradizione.
E così, dopo una serie di affanni e diatribe varie, si è arrivati, nel 2010, al nuovo disciplinare del Barolo di stampo e fascino tipicamente borgognone con l’introduzione delle menzioni geografiche aggiuntive. Arrivate oggi allo spropositato numero di 181 (laddove la sproporzione pare obiettiva visto che molte di queste non sono neppure rivendicate in etichetta). Ma se questa é la storia, siamo sicuri che questo traguardo sia da considerarsi una vittoria a pieno titolo proprio per tutti i produttori? Masnaghetti, forse, salterebbe dal letto a sapere che dopo tutta la faticaccia di mappature e studi territoriali, alla fine il Barolo di Bussia costa di più solo perché è considerato più elegante. Questa mappa “tiene in particolare conto [..] del comportamento che la vite ha sui differenti tipi di suolo ponendo così l’accento su alcune caratteristiche che [..] in viticoltura [..] possono risultare determinanti”. Il sistema, quindi, nasceva, con un fine del tutto aulico, quello, appunto, di valorizzare un territorio e le sue eccellenze, ma il parto poi, però, in alcuni casi, pare essere stato più edonistico che altro, dove tutto sembra essersi ridotto solo a degli aggettivi, da valere come linee guida per il consumatore inesperto.
Verrebbe allora da pensare che, pur essendo meritevole, forse il progetto italiano di zonizzazione con le mga, sarebbe ancora “rivedibile”: basti pensare che in 1.800 ettari vitati a Nebbiolo da Barolo si incorre, infatti, in microscopici cru come Bricco Rocche a Castiglione Falletto, di un ettaro e poco più, per arrivare poi a Monforte d’Alba con Bricco San Pietro di 380 ettari. Ora la domanda è: se si è notato che questi 1.800 ettari per composizione territoriale fossero così tanto diversi da richiedere una mappatura così certosina, è un caso che 380 di questi siano invece tutti uguali? E se magari questo Bricco è poco conosciuto, pensiamo allora al suo vicino di vigna, la Bussia, storico cru di Monforte d’Alba: un caleidoscopio di vigne diverse per esposizione, altitudine e conformazione del terreno e invece ridottosi ad un unico panettone senza specificazioni.
Verrebbe da chiedersi, ad esempio, come sia possibile paragonare il Barolo prodotto dalla vigna Pianpolvere, nella parte nord di Bussia, a quello prodotto a sud dalla vigna di Pugnane. Qui non pare esserci una gerarchia (o giustizia) e pur non discutendo sull’impossibilità oggettiva di trovare un cru che sia omogeneo in tutto e per tutto in ogni suo centimetro di terra, forse, verrebbe da pensare, che su 300 ettari di vigna (298,89 per la precisione) un righello in più non ci sarebbe stato male, magari imitando un po’ i francesi e adottando un sistema di primo secondo o terzo cru (cosa in realtà alla quale già aveva pensato Renato Ratti nella sua prima mappatura e poi dimenticata). E invece no, niente grand cru o premier cru. E la spiegazione data all’epoca dai vertici del vino langarolo fu che non esistevano differenze tra un cru e un altro, ma che solo l’annata e la mano del viticoltore poteva fare realmente la differenza.
Ma siamo proprio certi che ignorare completamente il ruolo cruciale che il terroir gioca nella vinificazione sia giusto? Forse la risposta è da ricercare, ancora una volta, tra le pagine di Masneghetti: “Bussia non è soltanto il più conosciuto di tutta Monforte d’Alba, ma anche una delle vere e proprie icone dell’intera denominazione, capace di far sognare gli appassionati di tutto il mondo. E forse proprio lì è da ricercare la ragione ultima della delimitazione, oggi ufficiale, che ha portato ad un’unica grande Bussia, che raccoglie sotto il suo ombrello zone di assoluto pregio come Pianpolvere o Colonello [..] ma anche altre numerose vigne dal valore del tutto marginale”.
E sotto altro versante, o bricco che dir si voglia, pare poi che questi cru vengano ristretti o dilatati, manco fossero colla vinilica, a nostro uso e costume. Pensiamo ad un altro caso limite come quello della sacra collina di Cannubi, e all’annosa vicenda conclusasi nel 2016 definitivamente in Cassazione. Qui la mga in questione era Cannubi suddivisa in Cannubi, Cannubi Valletta, Cannubi Boschis, Cannubi San Lorenzo e Cannubi Muscatel, di cui Cannubi sic et simpliciter era (ed è) la più pregiata. Ma con questa storica sentenza, si è consentito, ai produttori, i cui vigneti insistevano in queste aree di non rivendicare in etichetta la loro specifica menzione e di inserire, se lo preferivano, solo il nome Cannubi. Nella sentenza del Consiglio di Stato (poi confermata in Cassazione) infatti si legge che può “essere tuttavia consentito (alla Marchesi di Barolo ed agli altri soggetti eventualmente interessati) di utilizzare[..] il più generico nome Cannubi (in alternativa al nome Cannubi Muscatel)”. Quindi oggi sugli scaffali potremo ritrovarci un Barolo Cannubi che indistintamente potrebbe arrivare da Boschis, da Valletta, da San Lorenzo o da Muscatel. E allora, forse, il fine aulico della zonizzazione risulta un po’ in bilico visto che il consumatore pur non sapendo se quel vino è prodotto da un’area di maggior pregio (come la sola Cannubi) piuttosto che da un’altra, in ogni caso pagherà sempre lo stesso prezzo, che sarà, in ogni caso, appunto, sempre alto. E La risposta, di nuovo, in una pagina di Masnaghetti: “E per concludere una breve considerazione sul sistema complessivo delle Mga. Per quanto non sempre coerente o abbastanza severo nelle delimitazioni personalmente lo ritengo un’ottima base di partenza, tenuto conto dei tempi in cui viviamo e degli interessi economici che ruotano attorno ad un vino come il Barolo”.