Non siamo neppure sullo stesso parallelo. E tra la Borgogna – situata nella parte nord est della Francia – e l’Etna – pennacchio della Sicilia orientale – intercorrono oltre mille chilometri in una linea d’aria che nel mentre attraversa l’intera brezza del Mar Tirreno. Ad accomunarli è, però, il terroir inteso nel senso più profondo del termine. L’Etna come la Borgogna allora o viceversa. Entrambi custodi delle proprie origini, tutelate, amate e in ultimo esaltate. “Non produco Pinot Noir produco Bourgogne” direbbe un vigneron di quelle parti, e non da meno un etneo.
Due rari casi, dunque, dove il vitigno quasi perde di valore, se considerato a se stante – e ad emergere è, invece, un territorio, una storia e una comunità.
La grandezza e il successo di queste due zone allora sta in questo. In una comunità operosa che pone al centro la manodopera continua dei muretti a secco – presenti in ambo i territori; o che alleva le proprie viti a spalliera (Borgogna) o ad alberello (Etna) prescindendo dalla resa che vorrebbe un Dio denaro; o che ancora vendemmia secondo i tempi della natura (precoce il primo – tradivo, invece, il Nerello Mascalese) e vinifica secondo le tradizioni di un passato sempre vivido nelle menti anche delle giovani leve che si apprestano a fare un Bourgogne o un Etna.
La risultante di tutto ciò è allora, quasi come logico corollario, anche un forte appeal commerciale che altro non è – salvo rari casi – se non l’esatta rispondenza della sua qualità.
Non bisognerebbe stupirsi, allora, dei prezzi a scaffale o delle sempre limitate quantità. Non tutto è una bolla commerciale, e a volte, come in questi casi, le regole di mercato sembrano allinearsi all’etica e al sacrificio del bene prodotto. Ma se è questo il match point, per tutto il resto Etna e Borgogna sono, invece, figli di madre diversa. L’uno, il Nerello Mascalese – originario della piana di Mascali – che ha trovato la sua vocazione nel versante nord etneo tra i comuni di Randazzo e Castiglione di Sicilia – vede nel suo fratello minore, il Nerello Cappuccio – la sua tradizionale vinificazione. L’altro, invece, il Pinot Noir, non ha mai ammesso contaminazioni presentandosi unicamente, sin dall’epoca preromana, nella sua veste in purezza. In comune, poi, – nel profilo gustativo – sembrano avere ben poco da rinvenire. Se non fosse che sottigliezza di profumi e sorsi venati da intrinseca eleganza li rendono incredibilmente simili. Così, a Taormina Gourmet, in una degustazione alla cieca – condotta dal giornalista Federico Latteri insieme con Daniele Cernilli – alias Doctor wine – e la giornalista spagnola Amaya Cervera – ad 8 calici è affidato il compito di evidenziate i caratteri distintivi e le peculiarità stilistiche di questi due grandi terroir.