Una crisi senza precedenti ha colpito l’agricoltura della Sicilia e, in particolare, la cerealicoltura. Nei campi le spighe sono vuote. Il calo di produzione, in alcune aree, è arrivato al 70%, qualcosa di mai accaduto a memoria d’uomo. La peggiore siccità dell’ultimo secolo è esacerbata da una rete idrica in condizioni pessime, con tubature rotte in tutta l’isola e dighe fuori uso. Nonostante questa situazione estrema, il prezzo del grano è molto basso (30 centesimi al chilo in media) e non copre nemmeno i costi di produzione. “Noi non siamo solo un’impresa. Dobbiamo custodire un territorio per le generazioni future – spiega Marco Romano che gestisce l’azienda cerealicola Chibò e Barbarigo a Petralia Sottana in provincia di Palermo, nel cuore della Sicilia –. Per questo non siamo disponibili a mollare tutto e a coprire i nostri terreni con i pannelli solari, ma molte aziende sono indebitate fino al collo e cedono, perché sono messe di fronte a un bivio: da un lato un lavoro faticoso che non dà reddito, dall’altro una rendita facile e sicura”.
E così, in nome della transizione energetica, si specula sulla crisi e si ipoteca il futuro del territorio siciliano. Se si attraversa la Sicilia da Catania a Palermo, si vede scorrere un paesaggio violato, trasfigurato da ettari ed ettari di pannelli solari. I soggetti che li stanno installando sono fondi di investimento, società come la Engi, multinazionale francese che ha creato il più grande impianto agrivoltaico d’Europa tra Mazara del Vallo e Marsala, per vendere l’80% dell’energia ad Amazon Italia. Perché i pannelli solari – così importanti per produrre energie rinnovabili – non si sistemano invece sulle discariche, sulle cave, sugli edifici, sui parcheggi? Perché è più complesso, è richiede una regia politica. “Se le politiche energetiche fossero integrate a quelle agricole e a quelle culturali, sociali, economiche, non si sarebbe mai arrivati a questa competizione drammatica e paradossale fra agricoltura e ambiente – sottolinea Serena Milano, direttrice di Slow Food Italia – Se la politica avesse una visione del futuro, lavorerebbe per sostenere le aziende in questa fase critica; per ripristinare la fertilità del suolo in una regione che ha più del 50% dei terreni a rischio desertificazione; per tutelare la bellezza del paesaggio; per sostenere chi decide di restare e frenare la costante emorragia di giovani. La Sicilia, ma anche l’Italia tutta, deve scegliere se andare verso una produzione diffusa, sostenibile e locale o verso monopoli privati e una dipendenza sempre maggiore dall’importazione estera”.
“Abbiamo bisogno di transizione energetica ma anche ecologica, dobbiamo tutelare il nostro paesaggio e, come dice l’articolo 9 della Costituzione, “la biodiversità, l’ambiente e gli ecosistemi” – aggiunge Francesco Sottile, docente di Biodiversità e qualità delle colture agrarie all’Università di Palermo e referente scientifico biodiversità di Slow Food Italia – Le varietà siciliane di grano duro, spesso abbandonate per far posto a varietà commerciali con rese maggiori, riescono ad adattarsi meglio a condizioni climatiche estreme. Ci sono varietà tradizionali di ortaggi da aridocoltura, quasi dimenticate, che sanno attraversare un’intera stagione senza essere irrigate. Dobbiamo rigenerare suoli devastati da un’agricoltura industriale che non è mai stata sostenibile e lo è ancora meno oggi che l’acqua non c’è. Dobbiamo rivedere un intero modello produttivo e investire le risorse in modo diverso, cercando di sostenere gli agricoltori virtuosi che credono nei principi dell’agroecologia”.