Il vino italiano rivede i suoi numeri e si scopre sempre più decisivo in chiave made in Italy.
Lo dice l’analisi presentata oggi dall’Osservatorio Uiv-Vinitaly e Prometeia in occasione della conferenza stampa della rassegna veronese, in programma dal 2 al 5 aprile prossimi. L’industry vinicola del Belpaese vale 31,3 miliardi di euro, impegna 530 mila aziende con circa 870 mila addetti, ed è in cima alla speciale classifica relativa alla bilancia commerciale del made in Italy “tradizionale”, quello delle 4A (Abbigliamento, Alimentare, Arredamento, Automazione) che vale ogni anno circa 200 miliardi di euro. il contributo del vino – cita l’analisi presentata da Carlo Flamini di Unione italiana vini e Giuseppe Schirone di Prometeia – non si limita infatti alla filiera agroalimentare, ma si allarga al made in Italy nel suo insieme: dall’analisi di oltre 40 settori rappresentativi delle cosiddette 4A, il vino, con un attivo della bilancia import-export di +7,4 miliardi di euro, si colloca al primo posto per livello del saldo commerciale, lasciandosi alle spalle altri campioni del made in Italy nel mondo, sia del sistema moda che della meccanica strumentale. Una scalata, quella del prodotto agricolo italiano più richiesto nel mondo, partita dal 4° posto del 2011 sino alla performance di oggi, con il sorpasso su altri comparti icona del lifestyle italiano come la gioielleria/bigiotteria
(+6,8 miliardi di euro), la pelletteria (+6,7 miliardi di euro) e l’abbigliamento (+6,4 miliardi di euro).
Secondo l’amministratore delegato di Veronafiere, Maurizio Danese: “Troppo spesso il vino non è considerato dalla comunità economica per la sua reale dimensione. Il settore, con le sue imprese, è cresciuto ed ha affinato la propria managerialità fino a diventare un capitale strategico del prodotto Italia. Per questo Vinitaly – anche alla luce delle polemiche di alcune lobby che ne vorrebbero ridimensionare la portata economico-sociale – ha voluto quest’anno concentrarsi su un’analisi in grado di definire il reale contributo del comparto. Siamo convinti che il vino sia una ricchezza straordinaria per l’Italia e che, come sostiene il rapporto, la strada per l’ulteriore crescita debba necessariamente passare dall’export. È questo anche il traguardo di un Vinitaly che ha destinato gran parte delle proprie risorse in funzione di un allargamento globale della platea business e per il radicamento all’estero sui mercati emergenti e maturi”.
LA FILIERA
Il rapporto ha quantificato i numeri espressi dall’industria del vino a partire dal vigneto per arrivare alla fase distributiva e commerciale, integrandoli con quelli delle filiere correlate, anch’esse annoverate tra punte di eccellenza del made in Italy. La filiera “core” – produzione e vendita/distribuzione – vale 26,2 miliardi di euro (16,4 miliardi di euro la parte produttiva e 9,8 miliardi le vendite al dettaglio/ingrosso), impiega 836.000 addetti con un numero di aziende pari a 526.000. La filiera “indiretta” (tecnologie e macchinari per vigneto, cantina e controllo qualità/certificazioni) conta circa 1.850 aziende, con 34.000 addetti, per un fatturato di 5,1 miliardi di euro. Sommando insieme i canali diretti e indiretti della filiera “core”, in Italia (quindi escludendo l’export) il segmento Horeca-ingrosso-enoteche detiene una quota del 58% sul totale, seguito dal 25% della Gdo e dal 18% delle vendite dirette in cantina. La filiera “indiretta” conta sulla parte vigneto con attrezzature per l’impianto, fitofarmaci, fertilizzanti, imprese per la meccanizzazione (10.200 addetti, 2 miliardi di euro); la cantina, composta da aziende produttrici di macchine e attrezzature per la trasformazione, vinificazione, imbottigliamento oltre alle materie prime secche (20.000 addetti, 2,9 miliardi di euro); il controllo qualità (3.500 addetti, 150 milioni di euro). In Italia ci sono 29,4 milioni di consumatori di vino (55% della popolazione), di questi il 42% è quotidiano. La crescita media annua dei consumatori fino a 44 anni (il 34% del totale) è diminuita del 2,1% dal 2008 al 2021.
MADE IN ITALY
Il tratto caratteristico dell’industria enologica è senza ombra di dubbio il livello di internazionalizzazione. Con 7,9 miliardi di euro esportati nel 2022, le vendite estere hanno toccato il massimo storico, generando oltre il 54% del fatturato settoriale e confermando l’industria vinicola nettamente in testa al ranking dell’export dei settori alimentari. Un risultato – cita il rapporto -ottenuto al termine di un decennio in cui, con una crescita cumulata prossima all’80%, il settore è risultato uno dei principali attori dell’accelerazione complessiva
dell’export alimentare italiano. Senza il contributo del vino, che ha una propensione all’export doppia rispetto agli altri alimentari e bevande (54,5% vs 27,3%), l’avanzo commerciale dell’alimentare sarebbe inferiore de 64%. Secondo l’analisi dell’Osservatorio Uiv-Vinitaly e Prometeia, questo tratto export-oriented strutturale determina un ruolo di “apripista” anche a beneficio degli altri comparti dell’agroalimentare. Emerge infatti come, negli ultimi 15 anni, ad ogni punto in più di crescita delle esportazioni di vino corrisponda – due anni
dopo – una crescita di 0,8 punti percentuali in media per gli altri prodotti alimentari.
RISCHI DI TRANSIZIONE
Non mancano i rischi per un comparto che, al contrario di quello alimentare, è decisamente più esposto alle oscillazioni cicliche dettate dalla congiuntura e da agenti esogeni. In particolare, sarà cruciale la capacità di reagire alle sfide poste dal cambiamento climatico, con “rischi di transizione” (investimenti necessari per sostenere i percorsi verso la sostenibilità), la filiera vitivinicola potrebbe dover destinare, su base annua, risorse pari a circa lo 0,7% del proprio fatturato da qui al 2050. Per un controvalore di oltre 100 milioni di
euro l’anno e un investimento complessivo di circa 2,7 miliardi di euro.
C.d.G.