Giornale online di enogastronomia • Direttore Fabrizio Carrera
Scenari

La “filiera sporca”: così sfruttano il lavoro anche dei minori per il profitto in agricoltura

21 Agosto 2015
braccianti_agricoli_arance braccianti_agricoli_arance

di Lorella Di Giovanni

Una parte dell’agricoltura italiana sta cercando da anni di sviluppare sistemi produttivi sostenibili e inclusivi; esistono tuttavia, in molte Regioni, intere filiere agricole che sopravvivono grazie allo sfruttamento del lavoro.

Il Rapporto “Gli invisibili dell’arancia e lo sfruttamento in agricoltura nell’anno di Expo”, realizzato nell’ambito della campagna #FilieraSporca promossa dalle associazioni Terra! Onlus, daSud e terrelibere.org, ha voluto focalizzare l’attenzione su questi temi per raccontare cosa succede nei campi dello sfruttamento tra le tendopoli, la schiavitù e i percorsi – non sempre “puliti” – che fanno le arance per arrivare dal campo alla nostra tavola.

Si è scelto di fare una ricerca sulla filiera delle arance perché, tra le diverse filiere sporche, è un esempio importante che tiene insieme tante, troppe, contraddizioni. Una filiera parcellizzata fatta di innumerevoli passaggi, quasi mai trasparenti, in cui convivono il bracciante agricolo sfruttato e la multinazionale, la grande distribuzione e la criminalità organizzata. Una filiera basata sul trasporto su gomma e su un modello produttivo che è spesso dipendente dalla chimica.

Nell’anno di Expo2015, #FilieraSporca dimostra che non si può “nutrire il pianeta” sfruttando il lavoro e l’agricoltura e ha l’ambizione di sollecitare istituzioni e imprese a impegnarsi in questa direzione.
Il “viaggio reportage” lungo la filiera delle arance parte proprio dai campi, dove i piccolissimi contadini non hanno potere contrattuale e possono solo vendere il frutto al prezzo imposto, mentre i grandi proprietari commerciano direttamente e sono i veri protagonisti della filiera.
 
I commercianti sono al massimo tre per zona. Acquistano il prodotto e lo rivendono a supermercati e multinazionali. Spesso sono ditte a conduzione familiare, ma anche capaci di esportare nel mondo. Hanno un ruolo politico-economico fondamentale. Talvolta sono coinvolti nelle raccolte: il passaggio cruciale dello sfruttamento.
 
La raccolta per “iraccoglitori di arance” si traduce in un orrore fatto dilavoro minorile, condizioni abitative da bidonville africana, tendopoli dove si muore di freddo. Violenza contro le donne, sfruttamento selvaggio, caporalato e paghe da fame. Al di là del prezzo di vendita finale.
 
Il trasporto locale è affidato a imprese di camionisti talvolta collegati alla malavita. Quello globale ai container che attraversano il mondo. Due poli che producono distorsioni e paradossi.
 
I mercati ortofrutticoli sarebbero l’alternativa naturale alla grande distribuzione. Oggi sono un grande fallimento. Al di là delle presenza mafiose, sono dominati dagli intermediari e importano persino prodotti dall’estero.
 
Gli spremitori (fabbriche del succo d’arancia) sono spesso in crisi. Annientate dal commercio mondiale del prodotto a basso costo e dall’incapacità di rinnovarsi. Hanno una storia antica, oggi sono spesso capannoni fantasma.
 
Le industrie locali non si limitano a confezionare per altri ma commercializzano con marchi propri. Sono pochissime ma potrebbero essere una importante alternativa allo strapotere di multinazionali e grandi catene.
 
La grande distribuzione acquista da commercianti e grandi produttori. È un nodo essenziale della filiera. Dovrebbe indicare in etichetta ogni passaggio del prodotto che arriva sul bancone. E pretendere che tutto sia coltivato, raccolto e confezionato senza sfruttamento.
 
Le multinazionali del succo di arancia in Italia sono tre: Nestlé, multinazionale nata in Svizzera, che produce l’aranciata San Pellegrino; Coca-Cola, tra i brand più noti al mondo, produce l’aranciata Fanta. San Benedetto è invece interamente italiana.
Queste ultime determinano il prezzo del succo d’arancia e comprano dagli spremitori. Cosa fanno per verificare che i prodotti non vengono dallo sfruttamento? Sono disponibili a rendere trasparente la filiera? Per la prima volta Coca-Cola, unica a farlo, rivela l’elenco dei suoi fornitori.
 
Quella che #FilieraSporca ha ricostruito è una filiera lunga, troppo lunga, composta da troppi passaggi per portare un’arancia dall’albero al supermercato. Passaggi, molti dei quali gestiti e diretti dai grandi commercianti locali, in cui si acquista il frutto pendente, si organizzano le squadre di raccolta, si prendono accordi con le aziende di trasporto e si fanno affari con la Gdo e le multinazionali. Passaggi in cui ogni singolo anello deve guadagnare, fino a far lievitare il costo di un chilo di arance a 2,10 euro in un supermercato di Roma, e di cui solo 0,03/0,06 euro vanno al bracciante agricolo.
 
Poiché il valore della produzione agroalimentare non può essere tutelato soltanto attraverso la promozione della qualità, della tracciabilità degli alimenti, dell’ampliamento delle informazioni ai consumatori ma passa anche dal rispetto dei diritti dei lavoratori; il Rapporto ha voluto offrire una prospettiva nuova al problema complesso dello sfruttamento del lavoro in agricoltura.
 
Pensare a una filiera trasparente, limpida e corta, dove tutti i passaggi sono fatti alla luce del sole, infatti, aumenta la responsabilità delle aziende e dei fornitori lungo tutto la filiera e nei confronti dei consumatori, rendendo così antieconomico lo sfruttamento perché più facilmente rintracciabile, dagli organi preposti e dai consumatori stessi.

C.d.G.