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Scenari

Il vino e il cibo nella letteratura: così celebriamo la Giornata Mondiale della Poesia

21 Marzo 2025
Vino e cibo nella letteratura Vino e cibo nella letteratura

Buon vino fa buon sangue. Pane fa panza, vino fa danza. Pane, vino e biada accorciano la strada. E così via. Il mondo dei proverbi su cibo e vino è sterminato. Ma anche quello della poesia, arte universale di cui oggi ricorre la Giornata Mondiale, istituita dall’UNESCO nel 1999. Poeti, scrittori, letterari di tutto il mondo, e di ogni estrazione sociale, hanno cantato in versi le lodi della buona tavola e del buon bere, più che altro, come è immaginabile, per esaltare i piaceri che procurano. Ma non solo: non manca l’ironia, o la nostalgia, il ricordo, la ricerca di identità più o meno localistiche. La presenza dei dialetti, nel mondo della poesia, è d’obbligo.

Ecco una breve selezione di questa sterminata produzione poetica. Rigorosamente in disordine: il gusto non sente cronologie o geografie. (Tranne l’ultima, che deve stare alla fine).

Il pane (Gianni Rodari)

S’io facessi il fornaio
vorrei cuocere un pane
così grande da sfamare
tutta, tutta la gente
che non ha da mangiare.
Un pane più grande del sole,
dorato, profumato
come le viole.
Un pane così
verrebbero a mangiarlo
dall’India e dal Chilì
i poveri, i bambini,
i vecchietti e gli uccellini.
Sarà una data da studiare a memoria:
un giorno senza fame!
Il più bel giorno di tutta la storia

‘O rraù (Eduardo De Filippo)

‘O rraù ca me piace a me
m’ ‘o ffaceva sulo mammà.
A che m’aggio spusato a te,
ne parlammo pè ne parlà.
Io nun sogno difficultuso;
ma luvàmell”a miezo st’uso.
Sì, va buono: cumme vuò tu.
Mò ce avèssem’ appiccecà?
Tu che dice? Chest’è rraù?
E io m’a ‘o mmagno pè m’ ‘o mangià…
M’ ‘a faje dicere na parola?
Chesta è carne c’ ‘a pummarola.

Le golose (Guido Gozzano)

Io sono innamorato di tutte le signore
che mangiano le paste nelle confetterie.
Signore e signorine –
le dita senza guanto –
scelgon la pasta. Quanto
ritornano bambine!
Perché nïun le veda,
volgon le spalle, in fretta,
sollevan la veletta,
divorano la preda.
C’è quella che s’informa
pensosa della scelta;
quella che toglie svelta,
né cura tinta e forma.
L’una, pur mentre inghiotte,
già pensa al dopo, al poi;
e domina i vassoi
con le pupille ghiotte.
Un’altra – il dolce crebbe –
muove le disperate
bianchissime al giulebbe
dita confetturate!
Un’altra, con bell’arte,
sugge la punta estrema:
invano! ché la crema
esce dall’altra parte!
L’una, senz’abbadare
a giovine che adocchi,
divora in pace. Gli occhi
altra solleva, e pare
sugga, in supremo annunzio,
non crema e cioccolatte,
ma superliquefatte
parole del D’Annunzio.
Fra questi aromi acuti,
strani, commisti troppo
di cedro, di sciroppo,
di creme, di velluti,
di essenze parigine,
di mammole, di chiome:
oh! le signore come
ritornano bambine!

Perché non m’è concesso –
o legge inopportuna! –
il farmivi da presso,
baciarvi ad una ad una,
o belle bocche intatte
di giovani signore,
baciarvi nel sapore
di crema e cioccolatte?
Io sono innamorato di tutte le signore
che mangiano le paste nelle confetterie.

Pasta alla capricciosella (Aldo Fabrizi)

Provate a fa’ sto’ sugo, ch’è un poema:
piselli freschi, oppure surgelati,
calamaretti, funghi “cortivati”,
così magnate senz’avè patema.
Pe’ fa’ li calamari c’è un sistema:
se metteno a pezzetti martajati
nell’ajo e l’ojo e bene rosolati,
so’ teneri che pareno ‘na crema.
Appresso svaporate un po’ de vino;
poi pommidoro, funghi e pisellini
insaporiti cor peperoncino.
Formaggio gnente, a la maniera antica,
fatece bavettine o spaghettini…
Bòn appetito e.. Dio ve benedica!

I nuovi credenti (Giacomo Leopardi)

… accesa
d’un concorde voler, tutta in mio danno
s’arma Napoli a gara alla difesa
de’ maccheroni suoi; ch’ai maccheroni
anteposto il morir, troppo le pesa.
E comprender non sa, quando son buoni,
come per virtú lor non sien felici
borghi, terre, province e nazioni.
Che dirò delle triglie e delle alici?
Qual puoi bramar felicitá piú vera
che far d’ostriche scempio infra gli amici? 

Ode al carciofo (Pablo Neruda)

Il carciofo dal tenero cuore si vestì da guerriero,
ispida edificò una piccola cupola,
si mantenne all’asciutto sotto le sue squame,
vicino al lui i vegetali impazziti si arricciarono,
divennero viticci,
infiorescenze commoventi rizomi;
sotterranea dormì la carota dai baffi rossi,
la vigna inaridì i suoi rami dai quali sale il vino,
la verza si mise a provar gonne,
l’origano a profumare il mondo,
e il dolce carciofo lì nell’orto vestito da guerriero,
brunito come bomba a mano,
orgoglioso,
e un bel giorno,
a ranghi serrati,
in grandi canestri di vimini,
marciò verso il mercato a realizzare il suo sogno:
la milizia.
Nei filari mai fu così marziale come al mercato,
gli uomini in mezzo ai legumi coi bianchi spolverini erano i generali dei carciofi,
file compatte,
voci di comando e la detonazione di una cassetta che cade,
ma allora arriva Maria col suo paniere,
sceglie un carciofo,
non lo teme,
lo esamina,
l’osserva contro luce come se fosse un uovo,
lo compra,
lo confonde nella sua borsa con un paio di scarpe,
con un cavolo e una bottiglia di aceto finché,
entrando in cucina,
lo tuffa nella pentola.
Così finisce in pace la carriera del vegetale armato che si chiama carciofo,
poi squama per squama spogliamo la delizia e mangiamo la pacifica pasta
del suo cuore verde.

Ostriche (Seamus Heaney ) 

Acciottolio di gusci sui nostri piatti.
La mia lingua era un estuario in piena,
il palato era acceso di stelle.
Mentre assaggiavo le Pleiadi salate
Orione immerse il piede nell’acqua.
Vive e violate,
giacevano sui loro letti di ghiaccio:
bivalvi: il bulbo spaccato
e il sospiro seduttore d’oceano.
A milioni strappate e sgusciate e disperse.
Eravamo arrivati sulla costa
attraverso fiori e rocce calcaree
ed eccoci lì a brindare all’amicizia,
apparecchiando un ricordo perfetto
nella frescura di un tetto di paglia e stoviglie caserecce.
Oltre le Alpi, ben imballate nel fieno e nella neve,
i romani trasportavano le ostriche fino a Roma:
ho visto umidi panieri riversare
l’eccesso del privilegio
lambito di fronde e pungente d’acqua salmastra
e ho provato rabbia per non poter riporre la mia fiducia
nella chiara luce, come poesia o libertà
che si protendono dal mare. Ho mangiato il giorno
con cura, affinché il suo sapore salso
potesse animarmi tutto nel verbo, nel puro verbo.

L’anima del vino (Charles Baudelaire)
Dentro le bottiglie cantava una sera l’anima del vino:
“Uomo, caro diseredato, eccoti un canto pieno
di luce e di fraternità da questa prigione
di vetro e da sotto le vermiglie ceralacche!
So quanta pena, quanto sudore e quanto sole
cocente servono, sulla collina ardente,
per mettermi al mondo e donarmi l’anima;
ma non sarò ingrato né malefico,
perché sento una gioia immensa quando scendo
giù per la gola d’un uomo affranto di fatica,
e il suo caldo petto è una dolce tomba
dove sto meglio che nelle mie fredde cantine.
Senti come echeggiano i ritornelli delle domeniche?
Senti come bisbiglia la speranza nel mio seno palpitante?
Vedrai come mi esalterai e sarai contento
coi gomiti sul tavolo e le maniche rimboccate!
Come accenderò lo sguardo della tua donna rapita!
Come ridarò a tuo figlio la sua forza e i suoi colori!
Come sarò per quell’esile atleta della vita
l’olio che tempra i muscoli dei lottatori!
Cadrò in te, ambrosia vegetale,
prezioso grano sparso dal Seminatore eterno,
perché dal nostro amore nasca la poesia
che come un raro fiore s’alzerà verso Dio!”

Sonetto al vino (Jorge Luis Borges)

In quale regno o secolo
e sotto quale tacita
congiunzione di astri,
in che giorno segreto
non segnato dal marmo,
nacque la fortunata
e singolare idea
di inventare l’allegria?
Con autunni dorati
fu inventata.
Ed il vino fluisce rosso
lungo mille generazioni
come il fiume del tempo
e nell’arduo cammino
ci fa dono di musica,
di fuoco e di leoni.
Nella notte del giubilo
e nell’infausto giorno
esalta l’allegria
o attenua la paura,
e questo ditirambo nuovo
che oggi gli canto
lo intonarono un giorno
l’arabo e il persiano.
Vino, insegnami come vedere
la mia storia
quasi fosse già fatta
cenere di memoria

Sciampagne (Trilussa)

Nun bevo che Frascati. Lo sciampagne
me mette in core come un’allegria
per una cosa che m’ha fatto piagne:
o pe’ di’ mejo sento
che er piacere che provo in quer momento
è foderato de malinconia.
Er botto che fa er tappo
quanno la stappo, er fiotto de la schiuma,
ch’esce, ricresce, friccica e finisce,
me rappresenta la felicità
che, appena nasce, sfuma:
che, come viè, sparisce. 

Prova ne sia che tengo sur comò
una vecchia bottija de spumante,
ma nu’ la bevo e nu’ la stapperò;
perché me fa l’effetto che in quer vetro
ce sia riposta un po’ de quela gioja
sincera e bella de tant’anni addietro,
È come una riserva. Forse un giorno,
combinazzione rivenisse lei,
chissà… la stapperei
pe’ festeggià er ritorno;
ma lo spumante è un vino che svapora,
perde la forza… e allora
che figura ce faccio
se nun zompa er turaccio? 

Barbera e Champagne (Giorgio Gaber)

Triste col suo bicchiere di Barbera
Senza l’amore al tavolo di un bar
Il suo vicino è in abito da sera
Triste col suo bicchiere di champagne
Sono passate già quasi tre ore
Venga, che uniamo i tavoli signor
Voglio cantare e dimenticare
Coi nostri vini il nostro triste amor

Barbera e champagne stasera beviam
Per colpa del mio amor, pa ra pa pa
Per colpa del tuo amor, pa ra pa pa
Ai nostri dolor insieme brindiam
Col tuo bicchiere di Barbera
Col mio bicchiere di champagne

Come eran tristi e soli quella sera
Senza le donne al tavolo di un bar
Longo, Fanfani, Moro e giù Barbera
Gianni Rivera, Mao e giù champagne
Guardi, stia attento, lei mi sta offendendo
Huela, come ti scaldi ma va là
Vieni baliamo insieme questo tango
Baliamo insieme per dimenticar
Barbera e champagne stasera beviam…
Colpa di quel barista che è un cretino
Ci hanno cacciato fuori anche dal bar
Guarda non lo sapevo è già mattino
Si è fatto tardi ormai bisogna andar
Giusto però vorrei vederla ancora
Io sono direttore all’Onestà
Molto piacere vede io per ora
Sono disoccupato, ma chissà
Barbera e champagne stasera beviam…

La dieta (Aldo Fabrizi)

Doppo che ho rinnegato pasta e pane,
so’ dieci giorni che nun calo, eppure
resisto, soffro e seguito le cure…
me pare un anno e so’ du’ settimane!
Nemmanco dormo più le notti sane,
pe’ damme er conciabbocca a le torture,
le passo a immaginà le svojature
co’ la lingua de fòra come un cane.
Ma vale poi la pena de soffrì
lontano da ‘na tavola e ‘na sedia
pensanno che se deve da morì?
Nun è pe’ fa er fanatico romano;
però de fronte a ‘sto campà d’inedia,
mejo morì co’ la forchetta in mano!