di Daniele Cernilli, Doctor Wine
Qualche volta, discutendo con sussiegosi critici di vino, viene fuori che l’Amarone non sarebbe un vino “nelle loro corde”. Troppo alcool, qualche residuo zuccherino, poi prodotto con uve appassite.
Un vino forzato, insomma, lontano da un concetto di eleganza inteso in senso “borgognone”, come va di moda oggi, almeno per la maggior parte degli scrittori di vino. Sarà anche così, sta di fatto però che se si parla con molti consumatori di buona competenza, la distanza fra le posizioni della critica e le loro appare notevole.
L’Amarone negli ultimi anni ha preso lo scettro di grande rosso italiano più amato dal pubblico internazionale, la produzione in dieci anni è quasi raddoppiata e quei caratteri opulenti, quei suoi profumi di amarene sotto spirito e di cacao, quel sapore possente, anche con un po’ di residuo zuccherino, sembra incantare letteralmente vaste fasce di appassionati. Accade negli Usa, in Cina, in Russia, nei paesi del Nord Europa, e anche in Italia. Sono tutti matti? Sono tutte persone dal gusto discutibile? O non sarà che proprio la critica sta perdendo il proprio ruolo di tramite fra produzione e consumo, sostenendo tesi troppo lontane dal sentire comune?
Ho preso l’Amarone per esempio, ma potrei anche parlare di Primitivo, o di grandi vini intensi, come il Kurni, del quale avete di recente letto qui su Doctor Wine, e altri vini con caratteristiche simili. Parlando al Vinitaly con Angela Velenosi, assaggiando il suo Roggio del Filare 2010, che ha un residuo zucherino leggermente superiore ad altre versioni (sempre entro i quattro grammi per litro, intendiamoci), gliel’ho fatto presente. Lei mi ha risposto che nel Far East ha triplicato le vendite proprio per quel carattere che tamponava tannini e acidità. Questo vuol dire che il gusto non è uguale ovunque. Ce lo hanno insegnato i produttori di Champagne, che cambiano la liqueur d’expetition a seconda del paese dove esportano. Ce lo insegnano la conoscenza dei mercati e il buon senso. Lo stesso che dovrebbe guidare anche il lavoro dei critici, che più di tentare di affermare una propria visione del mondo, dovrebbero a mio avviso cercare d’interpretare l’esistente.