(Cataldo Calabretta)
di Francesca Landolina
“Il vero cambiamento è l’onesta di chi produce. Il nostro disciplinare è stato un autogol, ma nessun disciplinare sarà mai perfetto. Non esiste la perfezione. Esiste solo nella sensibilità e nell’etica di chi produce”.
Sono le parole di Caltaldo Calabretta, giovane vignaiolo di Cirò Marina e della Doc Cirò, che da cinque anni porta avanti la sua azienda, raffigurata simbolicamente dall'arciglione (ronca da potatura), l'antico strumento dei viticoltori cirotani, quasi a voler sottolineare la tradizione secolare della viticoltura di questa parte di Calabria che lui rappresenta. Lo abbiamo intervistato, per proseguire con le nostre interviste sul futuro e sugli scenari della Doc Cirò. Tanti sono, innanzitutto, i punti di forza della Doc Cirò, un vino secolare e di lunga tradizione. “Il Cirò porta il nome del territorio di appartenenza, con un vitigno tutto suo. Facilmente identificabile. “Riconoscibile – riprende il produttore – La storia che lo accompagna è anch’essa un punto di forza. Collezioniamo vecchie bottiglie da prima della nascita della denominazione. E poi oggi c’è un ritrovato Consorzio che dopo anni, in cui è stato a volte lontano dalle attività di promozione o poco partecipativo, seppur con qualche difficoltà, va avanti e fa scuola, imparando giorno dopo giorno a fare comunicazione territoriale. Senza dubbio Cirò è tradizione. Un intreccio di luogo, vitigno, clima, cultura secolare e gente. Quello che i francesi chiamano il terroir, qui c’è da secoli. Il Cirò non nasce come operazione commerciale, ma come substrato culturale. E questo è ciò che dobbiamo preservare”.
Ma tra gli aspetti positivi, non mancano alcune criticità. E Calabretta le espone. “Alcune aziende non hanno capito bene questa importanza storica. Mi spiego meglio: se raccontiamo il vino e il vitigno bene, ma non c’è poi un riscontro nella bottiglia, allora non c’è neppure credibilità. Bisogna essere cristallini nell’esprimere la propria chiara identità. Non si può prescindere da questo. Serve una forte onestà, un’etica imprescindibile”. Ma quali errori sono stati commessi? “Tutto nasce dalla bizzarra modifica del disciplinare avvenuta nel 2011 che ha permesso l’utilizzo di altri vitigni, utilizzati dalla regione Calabria. Se raccontiamo il Cirò, in bottiglia deve esserci Gaglioppo – afferma – Siamo certamente in regola secondo la legge, a prescindere dalla nostra scelta di usare o meno altri vitigni. Del resto, sono ammessi. Ma farlo è un autogol. Molto dello storytelling che facciamo è centrato sul Cirò e sul Gaglioppo, ma molti vini sono ottenuti dal taglio con vitigni come Montepulciano, Syrah, Merlot, Cabernet Sauvignon, caratterizzati dal colore acceso, vivo, che snatura il vino ottenuto dal solo Gaglioppo. Forse è un problema di cognizione di causa. Certamente, non lo si fa con malizia. Non abbiamo una scuola enologica alle spalle ed essendo una terra di conquista di consulenti enologi venuti da fuori, più semplice è stato costruire un vino guardando ad altri esempi, ad altri vitigni. Fondamentalmente è stata una leggerezza la nostra, una mancanza di consapevolezza dei nostri reali mezzi”.
Ma qualcosa è già cambiato e sta cambiando. “Negli ultimi 10 anni è nata la figura del viticoltore artigiano, che non ha come fine aziendale quello di occupare spazi e mercati internazionali o di assecondare mode come unica logica; il suo vino è quasi sempre quello che più aderisce alla linea tradizionale del Cirò. Non intendo dire con ciò che il suo vino è migliore di altri. Non è una questione di vino più o meno buono, ma senz’altro è più riconoscibile. Lavorando in questo modo, il vignaiolo artigiano aiuta comunque a costruire una cultura cirotana sull’uso del vitigno. Il delegare troppo all’uso della tecnologia o al gusto internazionale ti impoverisce culturalmente. E in passato abbiamo tanto delegato. Oggi un gruppo di noi, vignaioli e amici, stiamo iniziando a fare micro-vinificazioni di singole vigne, nove in totale, per fare emergere differenze, che possiamo chiamare poi cru. Da questo lavoro di ricerca, potremo capire da quali terre è possibile ottenere il meglio. Non partiamo da protocolli tecnologici, partiamo da più lontano, per una reale conoscenza”. Resta però un problema che la denominazione vive. Il valore medio del Cirò Doc è tutt’ora basso. Si trova a circa 4 o 5 euro allo scaffale. Il mercato è per lo più regionalizzato e si fatica ad uscire fuori da una logica commerciale.
“In un momento storico ben preciso, negli anni ’70-’80, si è fatta una scelta sbagliata. Le cantine storiche dell’epoca dedicarono attenzione al mercato della grande distribuzione, con la conseguenza dei prezzi bassi. Ma Cirò non è l’estensione vitata della Puglia o della Sicilia. Eravamo tra due giganti, intorno a noi, con un’economia e numeri più importanti – spiega . Conseguenze? Il prezzo medio è oggi sui 4/5 euro a scaffale. E questo ha fatto perdere al brand territoriale la sua immagine. Il mercato è poi per fortuna cambiato e sta cambiando. Oggi il 40 per cento della produzione totale è venduta all’estero, perché la denominazione è l’unica, in Calabria, che ha fama sul mercato internazionale. E per il 60 si vende in Italia, ma prevalentemente in Calabria”. “Parliamo però di 4 milioni di bottiglie annuali rivendicate. Il Cirò potrebbe uscire fuori tranquillamente dalla grande distribuzione. Questo deve essere lo sforzo e l’augurio che ci promettiamo”, aggiunge.
Quali prospettive allora? “Finalmente avremo una dotazione economica regionale, che ci permetterà di fare promozione, di condurre un’indagine di mercato e di capire dove il Cirò può avere più appeal. Ripartiremo dal mercato italiano. Ci siamo resi conto che bisogna riaffermarlo, perché il nostro vino è riconosciuto ma nessuno lo beve più, forse perché non è alla moda? Occorre recuperare quote di mercato e di immagine, in Italia e di conseguenza all’estero”. Quali soluzioni o proposte possono servire? “Il Consorzio ha presentato la richiesta per l’ottenimento della Docg, ma vogliamo fare un passo alla volta. Il disciplinare non è proprio ottimale? Beh, in realtà tutti i disciplinari sono perfettibili. Esiste e deve esistere solo la volontà del confronto. Altrimenti cos’è una denominazione? Non è quello che metti nel disciplinare che modifica la sensibilità del produttore. Il consorzio deve riuscire a coinvolgere tutti a tutti i livelli. Il vero cambiamento si ha quando ti confronti e fai convergere l’idea del Cirò da promuovere”. E sul futuro si dice ottimista: “Lo vedo bene, non può che essere così per un produttore. La mia è un’azienda giovane. Ho la volontà di costruire, condividere. Posso avere un mio punto di vista diverso da quello di altri, ma bisogna confrontarsi. Parlare anche con chi ha un punto di vista diverso, trovare un punto di incontro intorno al Cirò. Altrimenti ci sarà il caos. Bisogna unire le differenti visioni o quantomeno avvicinarle per farle procedere insieme con il solo scopo di valorizzare al massimo la denominazione”.