Sono più di 100 le aziende che ieri hanno aperto le proprie porte in occasione di Presìdi aperti, la giornata organizzata da Slow Food per consentire ai visitatori di incontrare i produttori che, con il loro lavoro, danno vita ai Presìdi Slow Food.
Dal Piemonte alla Sicilia, dall’Emilia-Romagna al Lazio, chiunque si è potuto recare nelle aziende per visitarle, conoscere le persone che ogni giorno mantengono in vita colture secolari, salvaguardando prodotti a rischio estinzione, tramandando tecniche tradizionali e tutelando paesaggi e ambiente.
Dal Cappone di Morozzo a oggi…
Torniamo per un attimo alla fine del millennio scorso, al 1998. A Morozzo, nel cuneese, si tiene la tradizionale fiera del cappone: si celebra da un secolo, eppure sta per scomparire. Colpa di un sistema alimentare per cui i capponi sono allevati in batteria, trattati con dosi potenti di ormoni. Costano meno e rendono di più, e pazienza se non è un modo né sano né giusto di allevare. È in quel momento, da questo paesino piemontese di duemila abitanti, che nasce il concetto di Presidio Slow Food. All’epoca già da un paio d’anni l’associazione della Chiocciola stava lavorando a un progetto sugli alimenti a rischio scomparsa: era l’Arca del Gusto, un vero e proprio catalogo nel quale la rete in tutto il mondo aveva iniziato a segnalare prodotti a rischio di estinzione. I Presìdi nascono da questo impegno e ne diventano presto “il braccio operativo”: sono i progetti con cui Slow Food, attraverso la Fondazione per la Biodiversità Onlus, si impegna concretamente a tutelare questi saperi e questi alimenti e – per dirla con il presidente della Fondazione Slow Food per la Biodiversità Onlus Piero Sardo – anche “lo strumento più efficace per difendere, sostenere e sviluppare la biodiversità domestica, cioè non quella delle specie selvatiche bensì di quelle selezionate da agricoltura e allevamento”.
… e oltre
Oggi, a oltre vent’anni di distanza da quel giorno a Morozzo, i Presìdi Slow Food sono 593, di cui 324 in Italia, mentre i prodotti segnalati sull’Arca del Gusto sono 5.327. “Il bilancio è estremamente positivo – ha spiegato Serena Milano, segretaria generale della Fondazione Slow Food per la Biodiversità Onlus, nel corso del convegno 20 anni in nome della biodiversità organizzato presso Nuvola Lavazza a Torino per fare il punto sul progetto dei Presìdi – Sono un progetto originale e innovativo che all’inizio sembrava un’utopia e che invece ha funzionato. I dati che oggi dimostrano l’impatto positivo dei Presìdi sono tantissimi: sono economici, ma anche sociali e ambientali. Uno per tutti: le emissioni generate dalle aziende agricole estensive e di piccola scala dei Presìdi sono inferiori del 30% a quelle di analoghe produzioni convenzionali”.
(Cipolla di Cavasso e della Val Cosa – ph Alberto Peroli)
E poi, naturalmente, ci sono gli effetti sociali e culturali: “In molti casi siamo partiti con pochissimi produttori, spesso anziani, poi si sono aggiunte nuove famiglie, molti giovani che hanno deciso di lavorare in campagna, magari dopo aver conseguito una laurea. Sono nate associazioni, consorzi di produttori orgogliosi del proprio lavoro e che hanno condiviso disciplinari di produzione”. Si sono dati, in altre parole, regole ferree per assicurare un cibo buono, pulito e giusto. Ed è proprio per questa adesione ai principi dell’associazione e per il rispetto dei rigidi disciplinari di produzione, che da oggi per la prima volta i Presìdi possono costituirsi in Comunità Slow Food, come gruppo di persone che opera sul territorio con un obiettivo comune, mentre i prodotti possono fregiarsi della chiocciola rossa ed essere raccontati attraverso l’etichetta narrante, una grande operazione di trasparenza per descrivere tecniche di allevamento, coltivazione o trasformazione utilizzate da ogni singolo produttore.
A proposito del disciplinare di produzione: secondo Francesco Sottile, del comitato esecutivo di Slow Food Italia, “è il punto più vicino tra Slow Food e la ricerca scientifica, perché all’interno di quel documento sono contenuti tanti elementi frutto della conoscenza scientifica, dell’innovazione e della consapevolezza dei meccanismi che regolano il rapporto tra produzione e ambiente”. Non è insomma un vezzo, quello di tutelare i prodotti e le tradizioni che ci giungono dal passato: è il modo scelto da Slow Food per preservare la biodiversità. Per salvaguardare la vita sul nostro pianeta. “I Presìdi sono una visione di Slow Food che ha teso a proteggere, molto prima del tempo, la biodiversità alimentare. Insieme ai sistemi naturali messi in pericolo dal prelievo dell’uomo, dall’industrializzazione, da un’idea di sviluppo miope e sbagliata erano a rischio tanti saperi e tante culture e Slow Food lo ha visto con anticipo. Dietro un Presidio c’è sempre il racconto di un territorio, storie di persone”, ha ricordato nel suo intervento Sveva Sagramola, conduttrice di Geo su Rai 3, che da sempre è a fianco di Slow Food per far conoscere al grande pubblico i Presìdi.
Largo ai giovani
Al convegno hanno partecipato anche quattro giovani produttori, in rappresentanza della seconda generazione impegnata nei Presìdi: “Mi sono appassionato all’agricoltura e alla vita nei campi quando ero bambino, grazie a mia nonna paterna che fin dagli anni Sessanta ha coltivato il cardo, dando così vita all’azienda di famiglia, e che mi ha insegnato molto di quello che oggi conosco”, ha raccontato Lorenzo Agatiello, 20 anni, produttore del Presidio del cardo gobbo di Nizza Monferrato. Lorenzo, come Lucia e Nicola Ceccarelli, che vengono invece dall’Umbria dove fanno parte del Presidio Slow Food del vino santo affumicato dell’Alta Valle Tevere, non hanno alcuna intenzione di abbandonare l’azienda che hanno ereditato: “La porteremo avanti anche perché rappresenta gli sforzi della nostra famiglia – dicono – Ci piacerebbe iniziare a produrre vino con metodologie all’avanguardia e anche costruire un frantoio per l’olio”.
(Sciroppo di rose – ph Alberto Peroli)
Il friulano Manuel Gambon, del Presidio Slow Food della pitina, ha cominciato a produrre nel 2016, quando ha aperto con il fratello un laboratorio di lavorazione delle carni. Producono principalmente pitina, “polpette di carne” molto particolare che può essere consumata sia cruda, a fettine, che cotta. “A casa le abbiamo sempre fatte seguendo la ricetta di mio zio Danilo, che le produce per l’autoconsumo secondo gli insegnamenti di suo padre – ha spiegato – Che cos’è il Presidio per me? Una garanzia di qualità e di tradizione. Sono contento che il disciplinare di produzione sia ancora più rigido inserendo l’obbligo di non utilizzare nitriti e nitrati”.
Qualche dato
I numeri non sanno rendere l’importanza del progetto e neppure trasmettere l’entusiasmo e la passione dei produttori, ma possono restituire una fotografia di quanto accaduto in vent’anni. In Italia nel 2000 i Presìdi erano 90; oggi sono 324. I produttori coinvolti erano 500, oggi sono cinque volte di più, circa 2.500. Diamo uno sguardo a qualche caso specifico: quello della razza bovina piemontese, ad esempio, dove da sette gli allevatori sono diventati 62; il pomodoro fiaschetto di Torre Guaceto (Br), ha vissuto una ripresa che ha consentito di passare da una produzione di 250 a 1500 quintali. A Ustica viene invece coltivata una lenticchia dagli eccezionali valori nutrizionali: in due decenni la produzione è aumentata da 2.600 a 9.000 chili e insieme anche il prezzo, da 3 a 12 € al chilo, consentendo alle persone che abitano l’isola di occuparsi di agricoltura. Sono progetti nati nei campi, negli allevamenti, sulle barche di chi la mattina presto esce a pescare, in tutta Italia. E sono diventati, in pochi anni, un esempio: casi da studiare per le università e soggetti in grado di interloquire con le istituzioni.
A quota mille
Il 2020 è anche l’anno in cui in Italia si raggiunge quota mille sull’Arca del Gusto: il millesimo prodotto italiano è il peperoncino tri pizzi della Calabria, indispensabile per fare l’autentica ‘nduja di Spilinga. Detto anche minni di vacca (cioè mammelle di vacca) per via delle tre protuberanze all’estremità inferiore, è un ecotipo selezionato nel tempo da generazioni di contadini dell’area del Monte Poro. Il valore del tri pizzi è elevato, perché la produzione non è abbondante e non è sufficiente per tutta l’nduja prodotta localmente. Molti produttori preferiscono dunque usare peperoncini coltivati fuori regione o addirittura provenienti dall’estero, in particolare dall’Asia, spesso rischiosi a causa dei prodotti chimici impiegati nella loro coltivazione ma il cui prezzo può essere inferiore anche di cinque volte.
C.d.G.