La Cina checché se ne dica, è ancora lontana. Almeno per il mercato del vino italiano.
Eppure è passato quasi un decennio da quando gli analisti dell’ export predicavano di puntare le attenzioni sui mercati emergenti dell’ oriente. La Francia lo ha fatto utilizzando strumenti adeguati se è vero, come è vero, che oggi, oltre il 50% di quel mercato le appartiene. Che in effetti e molto di più perché un altro 30% di questa fetta è attribuito agli inglesi che di vino non ne producono affatto ma in grossa quantità lo comprano dai transalpini e lì lo piazzano. E l’Italia? Appena il 6% ma sta crescendo e i dati dei primi tre mesi dell 2011 parlano di un incremento del 119,4% stando alle stime fornite da Assoenologi. Quello cinese è un mercato che può contare su un miliardo e 350mila abitanti. Il suo import relativamente al vino è letteralmente esploso nel 2010 raggiungendo 800 milioni di dollari dai 452 milioni del 2009 (+77%). In questo contesto, la Francia, ne deteneva il 42% dell’import totale, mentre l’Italia si trovava al quarto posto con una quota ridicola del 5%; quindi lontanissima dai cugini transalpini in termini di spread di crescita, sia di volumi e ancor più in valore. In sintesi, e in chiaro, per ogni cento bottiglie che entrano nel mercato cinese solo cinque sono italiane. E il loro prezzo medio è cresciuto del 12% (2.11) mentre i volumi in termini di ettolitri sono passati 2,86 milioni di ettolitri di vino, contro 1.7 milioni del 2009 e 1,6 milioni nel 2008.
Due buyers al tavolo di Silvia Maestrelli Tenuta di Fessina
Le possibilità di incremento sono dunque ampie se si pensa che in Cina il vino è la terza bevanda, dopo birra e distillati, con quote percentuali di poche unità ( le proiezioni parlano di 70 milioni di consumatori di vino, circa il 4,3%, nel 2020)e che se un giorno si arrivasse ad un quorum del 30%, al mondo non ci sarebbero più problemi di eccedenza. Questo quadro sintetico e parziale aiuta a interpretare più chiaramente il senso della visita in Sicilia, di una delegazione di buyers cinesi organizzata dall’Hong Kong Trade Development Council (HKTDC) con il patrocinio e la tutela dell’ Istituto regionale vite e vino e conclusasi martedì. Hong Kong, è bene precisare, con oltre sette milioni di abitanti si conferma una piazza strategica per una politica commerciale di posizionamento. E’ altresì una regione a statuto speciale in cui è più facile sviluppare politiche di marketing grazie anche all’abolizione di ogni dazio sugli scambi internazionali. Che in Sicilia si è rilevato una sorta di marketing culturale visto che i cinesi iniziano ad apprezzare il vino italiano e i suoi abbinamenti. Quello della versatilità, varietà e qualità sono state le tre chiavi del successo del vino italiano.
E quale regione meglio della Sicilia ha potuto declinare al meglio queste tre anime della cultura enogastronomica? Così la visita si è‘ sviluppata e articolata, lungo il doppio filone dei prodotti enogastronomici. Attraverso le province di Palermo Trapani Agrigento Ragusa e Catania. Ultima tappa di questa delegazione cinese era in programma sull’Etna. E quindici aziende etnee, ben attrezzate con depliant e cartoni pieni zeppi di bottiglie di vino rosso (in Cina il rosso non è solo il colore del vino preferito ma il colore dell’anima, il loro simbolo di prosperità di fortuna di augurio) si sono ritrovate nella ”Cantina Patria” a Passopisciaro. Ma la sorpresa è stata il grande apprezzamento e l’interesse dei buyers per la qualità dei loro bianchi, dei loro rosati e degli spumanti. E poi a pranzo, dopo le degustazioni, della cucina catanese. Una conclusione in grande stile senza eccessi di entusiasmo in perfetta coerenza con il loro carattere discreto e riservato. Ma i commenti esternati al loro ritorno in Patria sono già arrivati in Italia. Il più diffuso: “La Sicilia? E’ più vicina!”.
Stefano Gurrera