Una denominazione e una varietà, quella del Greco di Tufo Docg, che ormai si annovera per prestigio e carattere, oltre che per essere un grande vino bianco irpino e per la sua storicità. Così, in concomitanza con la prima giornata del Tufo Greco Festival 2023, Ferrante di Somma, titolare delle storiche Cantine di Marzo, ha organizzato uno stimolante convegno sulle possibili origini del Greco di Tufo e il suo ruolo nella vitienologia campana tra il XV e il XXI secolo. Non poteva esserci luogo più appropriato per questo importante momento di confronto e di approfondimento, che ha visto Antonella Monaco, con esperienza ventennale in ampelografia della Campania e docente in numerosi corsi di formazione per viticoltori campani, presentare il suo intervento, dal titolo “Dalle Aminnee gemelle al Greco di Tufo” e ripercorrere con chiarezza e profondità, la letteratura presente ad oggi su questa varietà. Ancor prima di entrare nel merito della ricerca, va sicuramente inquadrata l’affascinante realtà di Cantine di Marzo, che dal 2009 vede la guida di Ferrante di Somma, legato per discendenza diretta ai di Marzo.
Ferrante di Somma, istrionico e appassionato di vino e di storia, ha vissuto e lavorato per molti anni tra Francia, Inghilterra e Russia; la sua formazione internazionale e la sua passata collaborazione con diversi produttori francesi e italiani gli hanno permesso di rilanciare sul mercato nazionale ed estero l’azienda, portando avanti dal 2017 l’idea di puntare sulla zonazione del Greco e valorizzare le peculiarità del territorio di Tufo, presentando sul mercato tre Cru di Greco di Tufo: Vigna Serrone, Vigna Laure e Vigna Ortale. Come afferma Ferrante: “Noi in famiglia siamo convinti delle origini del Greco di Tufo, anche se è una cosa molto difficile da dimostrare; l’idea è proprio quella di trovare delle ipotesi possibili sulle origini di questo vitigno e capire da dove viene. Proprio da qui l’idea di questo “simposio”, che vuole essere da stimolo e da spunto”. Un viaggio che viene da lontano, un tuffo nel tempo, del resto quella di Cantine di Marzo, è senza dubbio una delle cantine più antiche d’Italia, con una tradizione vitivinicola che risale al Seicento, registrata ufficialmente presso la Camera di Commercio di Avellino come Azienda Agricola nel 1833.
Come afferma Antonella Monaco: “La storia inizia da lontano, non durerà secoli, ma giusto il tempo per far capire la complessità di una ricerca, sia storica sia territoriale, su una varietà. Una storia nella storia, che vede un excursus che parte inevitabilmente dalle testimonianze scritte e tramandate e che deve iniziare dal termine “aminnee”, che ho usato nel titolo del mio intervento, proprio perché era il termine più usato nelle traduzioni più fedeli dei testi di Marco Porcio Catone, Varrone, Columella e Plinio II; in un percorso di 4 secoli quasi, in cui tra età imperiale e repubblicana queste uve diventano le più famose. Plinio addirittura elenca 50 tipi di vino diversi, che lui inserisce in quattro classi di qualità e ovviamente mette tra i vini più importanti tutti i vini campani. Verso la fine del III secolo, il sud Italia vive l’inizio di una profonda crisi agraria che si prolungherà anche tra il V ed il VI secolo ed oltre, tanto che 130.000 ettari vengono cancellati dai ruoli dell’imposta agraria in Campania, segno di un progressivo abbandono e spopolamento delle campagne, aggravato dalla lunga guerra goto-bizantina e dall’epidemia di peste del IV secolo. In questo contesto economico spariscono i nomi delle uve e dei tanti vini, limitati solo a due tipi: vino greco e vino latino”.
Ma è possibile identificare le “aminnee” descritte dagli autori latini con le uve greche della Campania? A differenza di quanto accade oggi che spesso i nomi dei vini coincidono con il nome dei vitigni dagli scritti degli autori latini citati non è possibile identificare i vitigni che concorrevano alla produzione sia perché le descrizioni ampelografiche sono molto scarne, sia perché i nomi dei vini avevano in genere un’origine toponomastica, legata soprattutto al territorio di provenienza. Un salto temporale ci porta poi nel 1500 con Giovanbattista Porta, figura eclettica, che associa le “aminnee” alle viti greche nell’opera Villae, Libri XII (Francoforte, 1592, pp. 500-501) e sostiene che doveva avere origine nobile nelle “aminnee”, perché il valore economico del vino greco era molto importante. Interessanti le successive descrizioni del Carlucci che descrive nell’Ampelographie di Viala e Vermorel (Vol. VII, 1909): “Greco Bianco di Tufo: vitigno delle regioni meridionali d’Italia e soprattutto della provincia di Avellino, molto apprezzato e molto coltivato per la superiore qualità del suo vino, di un colore giallo-dorato; è probabilmente l’Aminea Gemella degli antichi autori; è pure il vitigno che è stato coltivato, nel 1° secolo a.C. sulle falde del Vesuvio”. E successivamente quella dell’ampelografo Ferrante che nel 1927, scrive: “Che la varietà detta Greco del Vesuvio o Greco di Tufo sia l’Aminea Gemella, tanto stimata nell’antichità, non v’è dubbio. La diffusione di essa è nella stessa zona che occupava in antico, la tradizionale bontà del suo vino e dalle caratteristiche biomorfologiche mantenutesi costante nei secoli. È coltivato esclusivamente in alcune zone delle provincie di Avellino e Napoli. Può dirsi sconosciuto altrove. […]”.
Quello che però destabilizza è la più antica descrizione del greco di tufo ufficiale, che risale al 1875, quindi 50 anni prima di quella di Lorenzo Ferrante, che non ha niente a che vedere con la sua descrizione. Greco, qualunque esso sia è sicuramente il vino più prezioso, ma ovviamente la confusione resta e nasce anche dal fatto dell’esistenza di tante varietà greco di provenienze diverse. Quello che oggi ci può aiutare è solo l’analisi genetica, che nel profilo genetico delle diverse varietà denominate Greco reperite in Campania, rivela come il Greco di Tufo in tutti i parametri della riga della tabella della pubblicazione ufficiale del 2005, risulta coincidente con l’Asprinio. Un intrigante excursus che ha senza dubbio coinvolto e al tempo stesso spiazzato i partecipanti, lasciando molti interrogativi aperti. Ed è proprio il legame con la storia e il valore del tempo del Greco di Tufo, che nonostante le sue origini ancora misteriose, fa da sfondo alla tangibilità delle etichette di Cantine di Marzo, proposte in una declinazione “storica”, un racconto che attraversa il tempo e abbraccia un orizzonte temporale che dalla 2020, passando per il 2017 e il 2016, si sposta verso il 2011, fino ad arrivare all’emotività suscitata dalla 1990, che culmina con la 1988.
Il tutto è stato poi completato dalla cucina dello chef stellato Marco Caputi del Maeba Restaurant di Nico Luca Mattia. Un momento stimolante di approfondimento ricco di confronti, per ripercorrerne e riconoscerne, insieme ad altri amici ed operatori selezionati del settore, le tappe della sua affascinante evoluzione e del suo ancora non del tutto conosciuto potenziale.