Anche quest’anno, gli amanti dei numeri, troveranno pane per i loro denti nell’approfondimento del Corriere Vinicolo> dedicato a tutto ciò che riguarda il mondo del vino nel 2024 appena concluso. E quindi vigneti, potenziale, produzione, consumi, commercio, export e altro a livello nazionale e mondiale. “Numeri che spiegano e riflettono bene l’andamento di un 2024 fluido, incerto, che marca un momento di passaggio molto delicato”, dicono Giulio Somma e Carlo Flamini del Corriere Vinicolo.
Questi i dati principali estrapolati dalle precise tabelle di questo numero del Corriere Vinicolo. La superficie produttiva in Italia è passata da quasi 700 mila ettari del 2008 a 675 mila ettari del 2023. Anche la produzione è drasticamente calata in Italia. Si è passati da 50,5 milioni di ettolitri del 2010 ai 38,3 milioni di ettolitri del 2023. I consumi di vini, in totale, nel mondo sono aumentati dal 2003 al 2023, passando da 250 milioni di ettolitri ai 303 del 2023. Ma da tre anni a questa parte la curva è praticamente piatta. I vini rossi rimangono quelli più consumati (116 milioni di ettolitri), seguiti da bianchi (91 milioni), spumanti e champagne (29 milioni) e rosati (23 milioni). L’export in Italia ha perso circa il 5 per cento, passando da 12,6 milioni di ettolitri del 2021 a 11,4 milioni di ettolitri.
Il dato forse più inquietante è che negli ultimi tre anni il vigneto italiano ha rallentato, se non completamente arrestato, la propria crescita. “Dopo aver invertito la tendenza riduttiva, dal 2016 fino al 2020 i nuovi impianti sono stati in grado di compensare le fisiologiche estirpazioni dovute a cessazioni per anzianità del viticoltore – dicono Somma e Flamini . Oggi, dopo aver assestato i vigneti di Prosecco e Pinot grigio, che erano stati i motori della crescita e che avevano contribuito a spostare quote importanti di vigneto da Sud verso Nord, gli impianti si sono fermati, le autorizzazioni ottenute vengono congelate in attesa di tempi migliori e sul tavolo politico ci sono richieste di ulteriori dilazioni (otto anni), quando non di sovvenzioni alle estirpazioni, come fatto in Francia”.
Insomma la crisi dei consumi c’è un po’ in tutto il mondo dovuta a vari fattori. Tanto che in molte nostre regioni del vino la produzione lorda vendibile per ettaro “è talmente bassa da rendere appetibile un contributo una tantum di 4.000 euro a ettaro per chiudere l’attività viticola”, scrivono Somma e Flamini. Sul fronte produttivo, per effetto della riduzione volumica del 2023, che ha sgonfiato il saldo delle giacenze di luglio a 40 milioni di ettolitri, il 2024, solo di poco più abbondante, ha oggi l’impegnativo compito di garantire non 12, ma almeno 14 mesi di vendite. “Ecco spiegato il motivo per cui questa campagna vendemmiale sta ribaltando tutte le logiche dell’economia – dicono dal corriere vinicolo – a volumi in crescita, i prezzi risultano stabili se non in tendenziale aumento. Nel nostro Paese – che ricordiamo copre la metà della produzione in termini di consumo – il vino soffre dei mutamenti in atto nel contesto sociale ed economico. La riduzione del potere d’acquisto delle famiglie nell’ultimo biennio ha impattato severamente un prodotto che a oggi non è più considerato – come 50 anni fa – indispensabile per la convivialità domestica. Oggi, se i consumi di vino nel nostro Paese sono stabili (intorno a 22-23 milioni di ettolitri), lo si deve alla crescita dei saltuari, destinati nei prossimi anni a pareggiare i volumi calanti consumati dai quotidiani. Per rispondere ai cambiamenti negli stili di consumo, i produttori italiani – o quella parte di essi in grado di realizzarlo – hanno puntato moltissimo sullo spumante. Fino a 20 anni fa, la linea del Po era il confine che le bollicine non avevano mai superato, mentre oggi si fa spumante in ogni regione, con le varietà classiche (quindi Chardonnay, Pinot nero), ma anche quelle locali, soggette a una sperimentazione quasi quotidiana. Nel 2024, per la prima volta in assoluto, gli imbottigliamenti hanno superato quota 1 miliardo di bottiglie, poco meno del 20% del totale della produzione italiana”.
Le bollicine sono un primattore nel mix italiano: a volume – dati export gennaio-settembre 2024 – i poco meno di 4 milioni di ettolitri venduti nel mondo rappresentano un quarto del totale e per la prima volta questa quota supera non solo i bianchi, ma anche i rossi fermi in bottiglia, laureando di fatto la spumantistica come primo prodotto esportato in assoluto. Lo spumante è ormai primo prodotto venduto in numerosi Paesi, non solo più nel Regno Unito, ma anche Francia, Polonia, Spagna, Russia. Negli Stati Uniti, il sorpasso sui bianchi è avvenuto a fine 2024. “C’è però il rovescio della medaglia – dicono Somma e Flamini – Tolto lo spumante dai conti nazionali, l’export si sgonfia del tutto in volume e scende a +4,2% a valore contro +5,6%. La cosa più straordinaria è che se dici spumante, non puoi che fare il nome di “Prosecco”. Non solo perché vale il 75% del totale spumante, ma anche perché il miliardo e 300 milioni di euro generato da gennaio a settembre viene da un fazzoletto di terra: 40.000 ettari circa sommando le tre denominazioni, ovvero il 6% del totale a vigna nazionale. Che in termini di valore, però, rivendica il 22% dei 6 miliardi di export targato Italia”. Insomma, senza Prosecco si ridimensiona non solo la favola del lo sparkling wine country, ma tutta l’Italia vitivinicola.
“Il nostro settore ha di fronte anni complessi e al tempo stesso sfidanti – concludono Somma e Flamini – Da quando il mercato statunitense è entrato in una fase involutiva (ultimi tre anni), si è capito quanto fosse importante non solo per il vino italiano, ma anche nell’economia vitivinicola mondiale. Ci siamo guardati in giro e abbiamo notato con evidenza quello che gli Stati Uniti – crescendo – coprivano: ovvero che il mondo si era preso una pausa di riflessione. Ci siamo accorti che – al di là della Vecchia Europa, che resta un mercato da presidiare ma che a volume non cresce più – il Sudamerica è piccolo (ora si guarda con speranza agli esiti dell’accordo Ue-Mercosur), che l’Africa non esiste, che l’Asia è solo Giappone (peraltro in decrescita demografica conclamata) e poco altro, e che la Cina è una chimera (lo si chieda agli australiani, che hanno già smesso di brindare per il rientro sul mercato dopo cinque anni di anticamera). Il vino è tornato a essere un prodotto occidentale per un mercato prettamente occidentale, con tutti i problemi che affliggono l’Occidente di oggi: crisi identitarie ed economico-industriali, invecchiamento della popolazione e via dicendo. Se si vuole crescere, in un mercato che non cresce più volumicamente la strada è quella della valorizzazione: dei prodotti, dei brand, delle tipologie. L’Italia in tutti questi anni – dalla crisi dei Subprime al Covid, per finire con i giorni nostri carichi di tensione e conflitto – ha dimostrato grande spirito di adattamento. Evidentemente, siamo stati capaci di cogliere i segnali deboli e rispondervi costruendo veri e propri “mainstream”. Dobbiamo continuare a sperimentare (low e no alcol in primis), pur rimanendo fedeli alle nostre radici e tradizioni, perché quelle non vanno mai rinnegate, semmai “lette” alla luce dei nuovi linguaggi con cui le generazioni che si succederanno sono abituate a dialogare. E il vino è un compagno di viaggio eccellente perché ha saputo reinterpretare le varie modernità nel corso della sua storia secolare senza rinnegare nulla del suo glorioso passato. E forse sta proprio qui, in questa ricetta, all’apparenza semplice, la chiave della sfida che ci attende in un 2025 ancora “fluido””.