di Alessandra Meldolesi
Diciamocelo: se qualcuno aveva la palla di cristallo, il 2021 l’ha mandata in frantumi.
Sul rollercoaster delle curve epidemiologiche la testa gira e lo stomaco sobbalza. Neppure esimi virologi ed epidemiologi azzardano pronostici, figuriamoci noi umili scrittori di cibo, oltretutto con l’epiglottide in subbuglio. Il settore, scommettono i cuochi, non sarà più lo stesso. Lo ha adombrato Daniel Humm, convertendo al veganesimo uno dei ristoranti più importanti del mondo e asserendo che sì, per avere più equità nelle cucine toccherà alzare i prezzi. Una provocazione echeggiata dall’irlandese Mickael Viljanen, che però ha destato scandalo in questi tempi di asfissia finanziaria. Perché anche una ristorazione riservata ai paperoni non sembra eccellere nell’etica. La linea di pensiero piace comunque negli States, dove l’ha fatta propria anche Corey Mintz, ex cuoco, oggi autore del best seller provocazione dell’anno, The next supper: the end of restaurants as we knew them and what comes next. Punta a responsabilizzare il cliente, nel momento in cui sceglie dove andare a cena, non solo in base al cibo, ma anche a standard etici. In un paese puritano, una specie di #metoo della ristorazione, con annesso rialzo dei prezzi, che lascia qualche dubbio. In fin dei conti non spetta a noi giocare all’ispettore del lavoro. È fin troppo facile prevedere, in ogni caso, che le turbolenze nel mercato del lavoro non si placheranno a breve. La ristorazione è stata il settore più colpito dalla cosiddetta “great resignation”, che alcuni interpretano come uno sciopero di massa: di fatto il 6,8% dei lavoratori del ramo ha lasciato, contro una media fisiologica del 4, in cerca di una migliore qualità della vita, archiviando turni di lavoro massacranti per paghe orarie mignon. Probabilmente i ristoranti, capro espiatorio della pandemia, hanno pure perso un po’ di magia e non sarà facile recuperare, per quelli che scalciano in seconda fila.
(Corey Mintz)
Di fatto i cuochi si guardano indietro, con la sensazione che il meglio ormai sia alle spalle. Bottura con il suo menu dei classici della cucina italiana moderna, da Mirella Cantarelli e Nino Bergese a Gianfranco Vissani, Salvatore Tassa e Fulvio Pierangelini. Lo ha messo a punto in lockdown con i ragazzi della brigata, spulciando i libri o chiedendo direttamente agli autori, per poi rileggere i capisaldi in chiave personale. Operazione non troppo dissimile da quella compiuta da Giancarlo Perbellini, che da anni fantasticava di un menu dei classici e finalmente ha trovato il modo e il tempo di implementarlo, con la complicità del secondo Simone Tricarico, passato per le grandi maison. Sono state così resuscitate vecchie glorie come l’aragosta Thermidor, intitolata al dramma di Sardou che allora debuttava e al mese del calendario rivoluzionario che lo ispirava. Il mese della fine del terrore di Robespierre, per inciso, nella speranza che porti bene. La proiezione nel futuro della cucina spagnola anni 0, con la sua fede evoluzionistica nel progresso tecnico continuo, non è mai suonata così stonata.
(Davide Di Fabio)
Poi c’è la sostenibilità, tormentone destinato a durare più di qualsiasi altra moda. Se ogni società rappresenta se stessa a tavola, quella che ci aspetta dall’altra parte del tunnel pandemico si troverà subito impelagata nella riconversione ecologica, emergenza dopo l’emergenza. Tematiche come l’impronta di carbonio, lo scarto zero, la riconversione green della cucina, la primazia del vegetale e perfino la produzione di carne coltivata saranno se possibile ancora più dirimenti nel giudizio. Possibilmente in senso vagamente americano, con la spinta verso l’alto in base a ragioni non legate alla mera qualità del cibo, ma attinenti alla mediatizzazione delle condotte virtuose.
Un nome, infine? Quello di Davide Di Fabio, per Massimo Bottura più che un secondo “un figlio”. Il giovane chef abruzzese si è fermato alla Francescana per ben 16 anni, praticamente appena uscito dall’alberghiero. E il palato, forgiato durante i viaggi col maestro, non mente nella potenza controllata e nella definizione avanzata del gusto, pur in un quadro concettuale ancora in fieri, non totalmente emancipato dalla poetica di partenza. La maison, vecchio dancing rimesso in pista da Stefano Bizzarri, figlio di mister Gucci, ha potenzialità oltre la stella; l’impressione è che ci sarà da divertirsi. Concludendo in un’Italia che si spopola, forse anche nel food saremo in meno. Meno ristoranti, meno cuochi, meno addetti ai lavori, meno eventi, meno foodies & groupies in circolazione. E che la moda sia finita potrebbe essere un’ottima notizia, si direbbe quasi una catarsi, che traghetti il settore oltre la sbornia e i postumi della gastromania.