LA POLEMICA
Per l’Assessore all’Agricoltura Trematerra l’utilizzo dei vitigni internazionali previsti dal disciplinare non comprometterebbe l’identità e la qualità del vino. Intanto Slow Food e piccoli produttori hanno già presentato il ricorso. L’ultima parola al comitato nazionale
La Regione:
sulla Doc Cirò
il Consorzio
ha ragione
“La Regione avalla le modifiche proposte dal Consorzio di tutela dei produttori sulla Doc Cirò, anche se riteniamo legittima la critica portata avanti da Slow Food e da alcuni produttori”. E’ la posizione dell’assessore all’Agricoltura della Regione Calabria Michele Trematerra (nella foto), che non lascia trapelare alcuna possibilità di revisione dell’ultima pubblicazione, n. 187 del 12 agosto 2010 in Gazzetta Ufficiale, della proposta di modifica al disciplinare della Doc Cirò.
Proposta che ha scatenato la reazione di Slow Food e di alcuni piccoli produttori portandoli ad elaborare un’istanza presentata al Comitato Nazionale Vini, l’organismo che decreta la nascita di nuove denominazioni o modifiche a Doc esistenti. Sotto accusa per Slow food e il gruppo di piccoli produttori che hanno presentato ricorso c’è la possibilità, prevista dal disciplinare, di utilizzare per il Cirò Rosso una piccola percentuale di alcune varietà di vitigni internazionali, che causerebbe uno snaturamento, con conseguente omologazione, dell’identità territoriale del vino. In disaccordo l’assessore: “La percentuale consentita dei vitigni internazionali non è obbligatoria. Ci sembra ragionevole e ci sembra che non alteri o pregiudichi l’identità e la qualità del vino – spiega Trematerra -. Averla stabilita in questi termini è il risultato di una mediazione ed è soprattutto l’espressione di una richiesta che ci è giunta da una parte importante territorio, rappresentato dal Consorzio. Che noi non potevamo non tenere in considerazione”. L’assessore però non si esprime contro chi ha avanzato le controdeduzioni e le istanze: “Slow Food ha posto dei quesiti e sarà il Ministero a dare una risposta. Non vedo alcun motivo di attrito, null’altro che una dinamica che da un lato vede chi porta avanti delle iniziative e dall’altro un territorio che fa una richiesta di natura diversa”.
Ma ecco le controdeduzioni che portano avanti la battaglia sulla Doc Cirò, quelle che contestano l’articolo n.2 ed il n. 6. La prima va in difesa del terroir d’origine, dato che la Doc Cirò rappresenterebbe lo 0,2% dei vini a Denominazione di Origine, e contro l’articolo 2 che appunto prevede, per il Cirò Rosso oltre al Gaglioppo, presente per l’80%, “il 20% di varietà idonee alla coltivazione nella Regione Calabria ad esclusione delle varietà Barbera, Cabernet Franc, Cabernet Sauvignon, Sangiovese e Merlot, che possono invece concorrere fino ad un massimo del 50% al suddetto 20%” (così cita testualmente il disciplinare). Per Slow Food significherebbe immettere vini sul mercato diversi, non rappresentativi più di un territorio ma di aziende e con un declassamento della denominazione di origine in pratica parificata all’Igt. Nel medesimo articolo verrebbe contestata anche la giustificazione del disciplinare sull’utilizzo delle altre varietà diverse dal Gaglioppo a fini puramente estetici e di appetibilità del vino. Per il disciplinare questo apporterebbe un miglioramento del colore, non molto intenso, per i piccoli produttori invece proprio questa caratteristica cromatica andrebbe valorizzata come espressione del terroir. Sotto i colpi della critica poi i parametri di acidità descritti nell’articolo 6 fissa, per il rosso, rosato e bianco, ad un’acidità totale minima di 4,5 g/l. Una variazione peggiorativa, dato che ad acidità più bassa corrisponderebbe un vino più piatto, di quella tipica del Cirò di 5,0 g/l, significativa per il profilo organolettico del vino e per la conservazione.
Manuela Laiacona