L’INCHIESTA
Dalla Malvasia delle Eolie al Moscato di Pantelleria. Viaggio tra le più famose e antiche produzioni delle isole minori. Ed ecco la loro storia fino ai giorni nostri
L’arcipelago del vino
La Sicilia enologica, oggi famosa nel mondo per il nero d’Avola e per la riscoperta delle terre vulcaniche dell’Etna, emanava più anticamente un fascino irresistibile per i vini delle isole minori, due in particolare: la Malvasia delle Eolie e il Moscato di Pantelleria. Vini antichi introdotti da fenici e greci, desiderati dai romani, studiati e rinnovati dagli arabi.
L’alto contenuto di zuccheri li rendeva preziosi, per bontà e benessere. La malvasia, originaria della Grecia e delle Isole Egee, si diffuse nella maggior parte dei Paesi mediterranei, nell’isola di Madera, nell’Africa del Sud ed oggi anche in California. Quella di Madera è la più famosa, ma la più antica è quella delle Eolie. Diodoro Siculo racconta, manca un secolo alla nascita di Cristo, che questa varietà fu introdotta dai greci, aggiungiamo noi, in una condizione nella quale la vite si coltivava su quei suoli da almeno trecento anni.
Di poco più recente è la storia dello zibibbo, conosciuto anche con il nome di Moscato di Alessandria, che pare abbia preso il nome da Cap Zebib, punto di imbarco per la Sicilia per gli arabi i quali lo avrebbero introdotto tra il 700 e l’800, o anche da zabib, uva appassita, anch’essa da un uso arabo. Le principali ipotesi sull’origine della parola “moscato” sono due. Quella più accreditata si basa sulla provenienza dalla città di Muscat, nel sultanato dell’Oman in Arabia Saudita. L’altra, su alcune assonanze con la parola “mosca”, un insetto da vino assai ghiotto di questo frutto dolce e profumato. Le tracce del suo percorso sono anch’esse interessantissime. Dal Caucaso, una zona corrispondente all’attuale Georgia, il moscato sarebbe passato in Egitto e, seguendo un percorso costiero nord-africano, sarebbe arrivato a Pantelleria. Qui il sistema di allevamento adottato fu quello di sempre, alberello a potatura corta, la tecnica quella araba della coltivazione all’interno di conche in suolo vulcanico e pietra, adatte a raccogliere l’umidità notturna ed a proteggere la pianta dai forti venti ricchi di salsedine, e dell’appassimento al sole su stuoie di paglia.
Ed ecco il fil rouge che lega questi incredibili vini e queste meravigliose isole. Vulcani, sabbie nere, vento, umidità marina, salsedine, minerali. Tutti elementi che si avvertono con chiarezza in vini timidi, discreti, “normali”, vini da tavola secchi non mascherati dall’ipnotizzante rotondità dei vini dolci. Questi vini determinano una evoluzione agricola delle Eolie e di Pantelleria. Su Lipari e Vulcano sta ritornando la coltivazione della vite, prima solo appannaggio di Salina. I vitigni corinto nero, in alcune zone chiamato cuccarina, e la malvasia bianca diventano spigolosi, taglienti, intensamente minerali, sapidi. La personalità dei vini delle Eolie ce la ricorda Guy de Maupassant il quale li descrisse come i “vini del diavolo” a causa delle note sulfuree, più intense di quelle riscontrabili nei vini etnei. Il fascino di condizioni climatiche e di suolo così esclusive non può che affascinare un produttore appassionato, il quale – di fronte alle innovative e moderne tecniche di vinificazione – prova a creare vini nuovi incrociando vecchie abitudini con nuove possibilità. Tasca d’Almerita produttore a Salina di una Malvasia delle Lipari, non appassisce le uve su graticci al sole bensì in celle ventilate, salvaguardando aromi e leggerezza che altrimenti si brucerebbero al sole. Il risultato è fragranza e delicatezza in un colpo, mostrando un lato della malvasia nuovo. Come non restarne affascinati?
Il merito di aver portato i vini delle Eolie a rinnovata fama va a Carlo Hauner, bresciano di origine boema. L’azienda, che dispone a Salina di 13 ettari e oltre 70 particelle diverse, si impegna anche nell’isola di Vulcano dove può contare su altri 7 ettari. Il progetto ricalca quello iniziato nei primi dell’800 da James Stevenson, uomo di cultura e benefattore, e rovinatosi con l’eruzione del 1888. Lo Hierà ’06 è un blend di alicante, nocera e nero d’Avola è fruttato, minerale, elegante, con note lievi di sandalo. Una vera sorpresa per gli appassionati. Così come tra breve sarà una sorpresa l’ingresso sul mercato della azienda Tenuta di Castellaro di Lipari. Corinto nero e carricante sono stati impiantati sotto l’occhio vigile di Salvo Foti, tra il 2007 e il 2008, con una densità di oltre 9.000 ceppi per ettaro. Una densità che esclude ogni intervento meccanizzato. Roba d’altri tempi.
Dalla parte opposta, Murana, noto produttore di Pantelleria di passiti da uva zibibbo, non ha resistito al fascino dei rossi. Abbiamo trovato, nascosto tra gli angoli di una enoteca di Palermo, il Criccio 1999 da uve carignano e nero d’Avola, un vino ottenuto da lunga macerazione e affinato il barrique per 12 mesi. Ventiquattro euro di nervosa eleganza. Ma coltivare a Pantelleria è costoso, lo si sa. Altra storia per i vini secchi ottenuti da uve zibibbo. Qui le note amare e dure, tipiche dei vitigni aromatici ad alto contenuto di terpeni, non sono tenute a bada da stucchevole dolcezza (questo è il motivo principale per cui l’80% dei vitigni aromatici, come il moscato o il gewürtztraniner, vengono vinificati in dolce). Notevole l’equilibrismo del Pietra Nera ‘07 di Marco De Bartoli, dal dinamico equilibrio sapido-acido opposto alla tagliente struttura estrattiva ed aromatica. Il ventaglio dei profumi è inebriante. Il vino, prodotto a Pantelleria in contrada Cufurà, esibisce un bel packaging, una moderna gabbia metallica satinata ed un elegante tappo in vetro.
Sulla stesso stile il Nikà ’07 dell’azienda Case di Pietra, in due versioni, quella secca e quella dolce. Le contrade Salto della Vecchia e Nikà sono tra le aree più vocate. Esposte a sud, esse subiscono meno che altrove gli effetti caustici del vento unito al sale. Se ne giovano i vini, chiari, netti, delineati nella loro espressione varietale. Impianti a tecnologia avanzata per la vinificazione a freddo garantiscono la tipicità del frutto, difendendo le note mediterranee e balsamiche. Di questa ricordiamo lo Zibibbo di Pantelleria ’06 DOC.
Francesco Pensovecchio