Sbilenche simmetrie
“Gloria!” Non ha mai capito che mi chiamavo Lori: era un po’ duro d’orecchi e in più sono sicura che per lui – che aveva chiamato le sue figlie Maria, Angela, Teresa, Immacolata, Costanza, Annunziata e Assunta – quel nome femminile che finiva per “i” non aveva alcun senso. “Gloria, bevi un po’ di vino!” Mi tendeva la bottiglia di vetro spesso tenendola per il collo, fra il pollice e un indice storto e lucido come un taralluccio spezzato. Era stata la guerra, mi aveva raccontato mio padre. “No, grazie nonno!” Il vino puzza, non lo berrò mai! Ma questo non glielo dicevo per non fargli dispiacere, perché il vino lo faceva lui e la gente veniva fin dai paesi vicini a comprarlo nel suo bar. “Solo un goccino, Gloria!” Il bello poi è che non mi chiamavo davvero né Gloria né Lori ma, come la nonna, Addolorata, anzi Maria Dolores, ché mia madre aveva avuto la prontezza di addolcire in un tocco d’esotico quel nome dall’incerto auspicio. “Grazie no, davvero, nonno”. Sedeva sul lato lungo dell’immenso tavolo di marmo su cui aveva sfamato quattordici figli, sette maschi e sette femmine. Mangiava lentamente, aggiungendo a tutti i cibi un po’ di sale, come se insieme all’udito gli si fosse indurito con l’età anche il senso del gusto. A ora di pranzo il sole esaltava i chiaroscuri della grande cucina a piano strada. “Filippo, bevilo tu un poco di vino!” Mio fratello, che aveva occhi brillanti e un sorriso cui tutto si perdona, alzava dal piatto il suo sguardo felice. “Il vino puzza, non lo berrò mai!” Nonno si riempiva il bicchiere. “Andatevi a prendere un’aranciata nel bar, allora.” Filippo saltava giù dalla sedia e io lo seguivo mentre imboccava veloce l’uscita che conduceva, attraverso un passaggio interno, al bar che si apriva sull’altro lato del palazzo. Spingevamo guardinghi la porta sul retro. Entrando nel locale, a quell’ora deserto come una città fantasma, sentivo un brivido breve: da grande farò l’archeologa, pensavo. Dietro il bancone una scritta obliqua diceva: “Bevete vini di Ettore”. Mio fratello accostava una sedia al frigorifero, ci saliva su, sollevava il coperchio, tirava fuori una dietro l’altra due bottiglie di Fanta color arancio vivo e me le porgeva. Poi rimettevamo a posto tutto e tornavamo a tavola. Finivamo di mangiare in silenzio, impazienti di tornare a giocare. “Amore!” Per tutto il liceo mi ha chiamato Maria Dolores, pronunciandolo senza fretta, come una piccola provocazione alla prima della classe. Ha preso a chiamarmi amore senza passare per Lori, ventidue anni dopo, nel breve volgere dei nostri primi incontri trepidi e stupiti. “Amore, brindiamo?” Sul tavolo in cucina ci sono una bottiglia, il cavatappi e due calici panciuti. Prende la bottiglia, scarta la capsula azzurra, poi toglie con il cavatappi il tappo. Versa il vino nei bicchieri. Guardo le sue mani grandi, la leggera peluria bionda sul dorso, sulle nocche. “Brindiamo… a che cosa?” Nella mia vita sono successe cose che non immaginavo. Sono entrata a lavorare in banca. Gli occhi di mio fratello si sono velati di melanconia. Ho scoperto che il vino mi piace. E mi sono innamorata a quarant’anni del mio professore di filosofia, perso dopo la maturità e ritrovato un giorno in una vineria del centro tra lo scaffale delle ribolle e quello degli chardonnay. Che sorride ora porgendomi il bicchiere. Nei suoi occhi c’è l’amore appassionato e il guizzo sornione di chi apprezza le astuzie del Destino. “Brrr…. indiamo al breve brivido dell’esistenza!” Amo la vita immensamente, la amo nei dettagli. Il primo sentore d’autunno che filtra stasera dalle persiane accostate. Gli esercizi al pianoforte del vicino di casa. L’ambra brillante nei calici e i suoi riflessi arancio. Il gesto ormai familiare di Paolo che accosta il naso al bicchiere, inspira, poi solleva la testa e mi guarda come a dire mmmh, niente male… Tengo gli occhi nei suoi mentre beviamo insieme un piccolo sorso. Lo assaporiamo in silenzio, impazienti di fare l’amore.
Dolores Maria Di Baia