L’INTERVISTA
Alessandro Roscioli, dello storico forno romano si racconta. A Campo de’ Fiori inaugurato un locale che serve vini e formaggi di qualità
Buono come il pane
Noto ben oltre i confini della capitale, l’antico forno Roscioli, a due passi da Campo de’ Fiori, offre da anni ai gourmet che vivono o che frequentano la capitale una vasta scelta di prelibatezze raffinate, sia di giorno che la sera, accompagnate da vini di qualità. Cronache di Gusto ne ha parlato con Alessandro Roscioli, gestore della raffinata «salumeria con cucina» di via dei Giubbonari, “gemellato” con la sede storica di via dei Chiavari, dove è rimasto il forno vero e proprio, affidato a suo fratello Pierluigi.
Come è nata l’idea di trasformare un semplice forno in un locale di alta qualità?
«Mio padre Marco Roscioli ha rilevato il forno qui di fronte nel 1972, e da subito ha intuito, magari inizialmente in modo un po’ ingenuo, che il futuro sarebbe passato per un graduale incremento della qualità a scapito della quantità. Pur utilizzando soltanto poche materie prime base, il forno Roscioli fu infatti il primo a Roma ad offrire prodotti sofisticati, come ad esempio il pane al sale della Bretagna, che produciamo dalla fine degli anni ‘70. Poi nel dicembre 2002 abbiamo ristrutturato questo secondo locale, dove prima gestivamo una semplice salumeria, e da allora vi facciamo anche ristorazione, ritenendo che i prodotti di elevata qualità possano essere consumati anche sul posto, appena tagliati, quando ancora conservano tutte le loro qualità organolettiche».
Quando avete iniziato avevate in mente un progetto preciso?
«In realtà no. Ci siamo buttati in questa impresa con un po’ di incoscienza e con molta voglia di sperimentare soluzioni nuovi. L’unica idea base è stata sempre quella di rispettare l’eccellenza della scelta in tutto ciò che offriamo al pubblico. Per questo le nostre selezioni, pur molto vaste, non sono rappresentative del mondo intero, ma si limitano al meglio di pochissimi Paesi».
Quindi, da dove provengono i vostri prodotti?
«Attualmente la nostra offerta è di 1400 vini e di 700 tra salumi e formaggi, e di questi la stragrande maggioranza è di produzione nazionale, mentre il resto proviene da altri cinque Paesi dell’Europa occidentale. In particolare è italiano il 90% dei salumi e il 60% dei formaggi, con piccole percentuali di prodotti spagnoli, inglesi e soprattutto francesi, di cui abbiamo una vasta scelta di formaggi. Massima selezione anche per i vini: 800 etichette italiane, 300 francesi e il resto diviso tra produzioni tedesche e austriache».
Qual è la tipologia dei vostri clienti?
«Un quarto sono turisti stranieri, anche per via della location così centrale. Ma tre quarti sono italiani, e di questi il 30% costituisce uno zoccolo duro di clienti assidui, direi di ceto socioeconomico elevato, visto che un pasto completo qui costa circa 50 euro».
Qual è il vostro piatto più celebre?
«Noi non facciamo preferenze, ma nel 2008 la nostra carbonara è stata riconosciuta come la migliore d’Italia, ottenendo anche una citazione sul New York Times».
Ed in effetti non si stenta a crederlo, visto che se la gastronomia di qualità fa venire in mente la Francia, l’ambientazione del locale è invece decisamente in stile newyorkese, con tanto di travi d’acciaio bronzee e spirali rovesciate di Lloyd Wright utilizzate come motivi ornamentali per il bancone e le luci, mentre gli scaffali scuri alle pareti sono ricolmi di vini pregiati, con una piccola rappresentanza di paste artigianali, confetture, mostarde e condimenti vari.
Qual è il segreto per fare una buona pizza? E una pizza bianca in particolare?
«Sicuramente la lievitazione naturale. Noi usiamo soltanto lievito di riporto, mai di birra e tantomeno chimico. E modifichiamo il tempo di lievitazione a seconda delle stagioni: d’estate scendiamo fino a 16-17 ore, mentre nei giorni più freddi dell’anno siamo arrivati anche a 30».
Quanto sono importanti invece i condimenti?
«Quasi altrettanto. Il lievito è fondamentale, ma a volte olio, pomodori ed altri ingredienti di altissima qualità possono esaltare anche una pasta non eccezionale. E naturalmente vale anche il contrario: anche una pizza ottima può risultare meno gradevole al gusto se poi si utilizzano condimenti mediocri».
Che vino consiglia di abbinare con la sua famosa pizza bianca?
«Proporrei un vino chiamato ‘Schiava’ o anche ‘Santa Maddalena’, che si ottiene da un vitigno autoctono dell’Alto Adige. Si tratta di un rosso dal colore scarico, molto profumato e con un tannino molto morbido, che si può bere anche fresco».
Cosa pensa del fatto che l’Italia non sia riuscita a tutelare il nome ‘pizza’?
«Purtroppo non è un problema nuovo. Lo abbiamo già avuto per il parmigiano, per il vino Tocai e tantissimi altri prodotti agroalimentari che sono intrinsecamente connessi alla nostra cultura, al nostro modo di essere e di vedere le cose da italiani. La colpa è di tutti noi: sia dei nostri rappresentanti, che in tutti questi anni non sono stati capaci di assicurare la giusta tutela dei nostri tesori, antichi o moderni che siano, alimentari come di elevata tecnologia, sia di tutti noi, dato che secondo me i governanti rispecchiano sempre fedelmente vizi e virtù della società che li ha eletti».
Che piatti apprezzano di più i turisti?
«Pizza e spuntini vari, ovviamente, ma la maggioranza viene soprattutto per la cucina romana tradizionale: cacio & pepe, amatriciana e carbonara. Sono piatti semplicissimi, ma a cui dedichiamo moltissima cura, sia nella realizzazione che nell’esposizione, per offrirli sempre al meglio».
E lei personalmente, che pizza ama di più?
«Io sono romano, perciò sarò sempre affezionatissimo alla cara vecchia pizza bianca con la mortadella!».
Alessandro Testa