L’INCHIESTA
Tanti piccoli produttori, rossi e bianchi eleganti. Come nella regione francese rinomata per i suoi vini. Ecco come l’area attorno al vulcano è diventata tra le più amate dagli enofilii
Etna, la nostra
Borgogna
Dopo secoli di tradizione, l’enologia moderna sembrava aver messo da parte i vini dell’Etna. Tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900, la viticoltura sul vulcano aveva assunto una tale importanza sia dal punto di vista sociale che economico che alle aziende vitivinicole del Catanese, intorno al 1880, toccò il primato per superficie vitata e per produzione di vino (circa un milione di ettolitri).
Un entusiasmo venuto meno in tempi recenti e ora tornato alla ribalta con le grandi aziende dell’Isola, ma non solo, che investono sul territorio della Doc più antica di Sicilia. Fra i “grandi” vanno ricordati gli investimenti di Tasca, che quest’anno comincerà la produzione, e poi gli “autoctoni”: Benanti e Cottanera della famiglia Cambria.
Un ritorno di fiamma legato forse al fatto che l’Etna può essere considerato la Borgogna di Sicilia, grazie all’altitudine, alle condizioni climatiche difficili ed estreme, alla diversità dei vini che riesce a far maturare, più eleganti e più complessi rispetto a quelli prodotti in qualsiasi altra parte. Grazie anche ad una certa mentalità, un certo modo di fare vino che favorisce le rese basse, salvaguardando vitigno ad alberello e facendo crescere la vitivinicoltura in un territorio dove che può godere di un patrimonio viticolo raro, con piante anche pre-fillosseriche.
Diversità, quelle etnee, che si riscontrano metro dopo metro, contrada dopo contrada. Peculiarità legate di certo anche alla forma geografica del territorio della Doc, una forma circolare, che corre intorno al vulcano ed è esposta ad agenti atmosferici e ambientali diversi. Unicità di vini che non possono essere uguali se coltivati ad altitudini diverse. Un esperimento del genere lo fa Alberto Aiello Graci, 32 anni, che dopo un’esperienza nel mondo della finanza a Milano, è tornato a casa per dedicarsi al vino. “Per valorizzare le differenze, come avviene in Borgogna – dice Aiello -, produciamo due vini diversi con lo stesso Nerello Mascalese ma coltivato a due altitudini diverse: 600 e 1000 metri. I risultati sono da provare”. Nel XIX secolo anche il direttore della Scuola di enologia di Riposto, istituita nel 1886, a tutela e controllo dei vini dell’Etna, chiamava quella zona la Borgogna siciliana. “Una scoperta fatta per caso – racconta Marco De Grazia, importatore di etichette italiane negli Usa e folgorato dal vulcano -, io l’avevo battezzata così nel 2002, quando ho conosciuto meglio questa realtà”. Tra chi è stato colto dalla folgorazione etnea c’è anche Andrea Franchetti, già noto per l’ambiziosa tenuta di Trinoro nel sud della Toscana, che sta portando avanti sempre più il suo progetto vitivinicolo isolano. Franchetti ha preso a cuore la sua nuova base operativa, tanto che nei giorni scorsi ha organizzato a Passopisciaro “Le Contrade dell’Etna 2008”, nella quale 38 produttori del comprensorio tra Linguaglossa, Randazzo, Castiglione di Sicilia hanno presentato i loro vini en primeur. Un successo.
Marco Volpe