CIBO E STORIA
L’Isola fu la via d’accesso per gli antenati dei maccheroni, consumati già dai greci. Ed ecco i primi condimenti
La Sicilia
aprì la porta
alla pasta
In Italia non solo le persone, ma perfino i cani, sono abituati a mangiare la pasta tutti i giorni: circostanza per noi del tutto normale, ma fonte di stupore per gli stranieri. Già gli antichi greci mangiavano il laganon (laganum per i latini, da cui derivarono le laganelle napoletane), una sorta di focaccia sottile di farina non lievitata che non era però cotta in acqua come la pasta, ma infornata e poi tagliata a listarelle.
Negli affreschi della Tomba dei Rilievi a Cerveteri sono riconoscibili utensili che forse servirono a fare questo tipo rudimentale di pasta e, almeno dal punto di vista etimologico, i nostri maccheroni potrebbero avere come lontanissimi antenati la makarìa greca che, secondo il lessicografo Esichio, era una ‘poltiglia di brodo e farina’.
Parecchi secoli dopo, fu forse proprio la Sicilia araba la principale porta d’ingresso nella nostra penisola della pasta vera e propria, che era destinata a divenire regina indiscussa del cibo italiano. Sembra infatti che la pasta sia stata portata in Europa dagli arabi, che governarono la Sicilia per più di due secoli, e che durante le loro transazioni commerciali in oriente avevano forse appreso l’idea e le tecniche dai cinesi e dai persiani. Uno dei piatti preferiti degli iraniani sono tuttora le tagliatelle reshte, già menzionate nei libri di cucina islamica medievale, e vari tipi di pasta sono mangiati in Cina: in un mercato dello Yunnan, nella Cina sud-occidentale, ho visto fuoriuscire rapidamente da macchine artigianali lunghi e bianchissimi spaghetti di riso, che venivano poi subito tagliati con le forbici.
Il contributo di Marco Polo in questa vicenda è solo una leggenda: egli ritornò in Italia nel 1295, mentre il primo documento scritto sulla pasta è un inventario datato 1279 nel quale un mercante genovese descrive un carico di macharoni probabilmente proveniente dalla Sicilia. Al tempo normanno in Sicilia, secondo il Libro di Ruggero del geografo Al-Idrisi (1150), e precisamente presso Trabia, c’era una fabbrica di pasta, che gli arabi chiamavano itryia. In molti dialetti italiani, siciliano compreso, tria vuol dire pasta: tria e ceci è un noto piatto leccese, e anche il termine catanese triaca pasta, che indica la pasta con i fagioli freschi, potrebbe avere questa antica etimologia. È presumibile che il laganon greco-romano sia stato simile nell’aspetto alle nostre tagliatelle, mentre la itryia araba e i fidawish arabo andalusi fossero tipi di pasta filiforme, antenati dei nostri spaghetti, come sembrano anche indicare le assonanze lessicali con i termini italiani lasagne e fidelini. I vantaggi di questo tipo di cibo non erano certamente sfuggiti ai nostri antenati antichi e medievali: rispetto al pane lievitato, la pasta secca consente una lunga conservazione, ed era quindi in grado di risolvere uno dei loro principali problemi.
Per lungo tempo la pasta in Sicilia fu un lusso riservato alle grandi occasioni, per esempio fidanzamenti o matrimoni, per i quali erano “obbligatori” i maccaruna ’i zito (maccheroni del fidanzato), o semplicemente ziti. Per quanto riguarda il condimento della pasta, attingere ai prodotti locali, un tempo per necessità, rimane tuttora un’ottima regola. L’ispirazione può arrivare dalla campagna, con condimenti a base di ricotta, zucchini, melanzane, fave e piselli, ma anche di fiori di zucca o di tenerumi, cioè le foglie della zucchina lunga. Molto particolare l’arricciata ca’ lumìa di Buccheri, in cui la pasta è condita con sughetto di limone e menta.
Nella peggiore delle ipotesi, se in dispensa non c’è proprio quasi nulla per condirla, si può sempre preparare la pasta come l’amore di Dio, una deliziosa espressione che a Sambuca designa capellini o spaghetti tagliati, accompagnati semplicemente da pomodoro pelato e cipolle. Se il mare era troppo agitato per pescare, a Siracusa si soleva preparare la pasta ‘ro malutempu (“del cattivo tempo”), e a Marettimo la pasta cu’ pisci fuiùtu (“con il pesce scappato via”): preparazioni che, come la pasta con le sarde a mare, non prevedono il pesce fresco. Un’altra soluzione a costo quasi zero sono gli spaghetti col sugo finto, cioè con estratto di pomodoro, senza né carne né pomodoro fresco.
Passando dalla terra al mare, si arriva al caso estremo di Trapani dove i pescatori preparavano la minestra con le pietre, cioè cotte con pezzetti di rocce sottratte alle coste marine: i sassi avvolti dal muschio marino (cioè le alghe ulotricali), i piccoli organismi che vi erano attaccati e la lunga permanenza nel mare erano in grado di aggiungere sapore al piatto. Da questo piatto poverissimo sono derivati gli spaghetti allo scoglio, serviti oggi nei ristoranti più raffinati, dove “scoglio” sta ormai per “pesci di scoglio” e nessuno più ne sospetta il significato letterale. (1-continua)
Marcella Croce