LA TRADIZIONE
Il pitirri è una zuppa vecchia di duemila anni, diffuso soprattutto nelle aree solfifere siciliane: Lercara Friddi, Sutera e Serradifalco ma anche in parte dell’Agrigentino. Ora un agriturismo di Castronovo lo ha riscoperto e lo propone ai suoi ospiti
La minestra (fritta)
delle solfatare
Forse anche Ciaula e Rosso Malpelo si cibavano di questa pietanza. Il pitirri è, infatti, un piatto diffuso soprattutto nelle aree solfifere siciliane: Lercara Friddi, Sutera e Serradifalco e paesi limitrofi, ma anche in parte dell’Agrigentino. Una minestra per poveri in via di estinzione che ora l’agriturismo Sorgente Refalzafi di Castronovo di Sicilia sta cercando di salvare dall’oblio, rinnovato e inserito nel suo menù.
«Da un punto di vista linguistico “pitirri” – spiega Giovanni Ruffino, preside della facoltà di Lettere e filosofia dell’Università di Palermo e docente di Linguistica italiana – è legato a uno strato solfifero. Il termine è preso in prestito dal linguaggio tecnico. Infatti, è un piatto diffuso nella Sicilia centrale dove sono presenti le miniere di zolfo».
La circostanza è confermata da Lucia Di Minno, presidente del Centro studi sulle miniere di zolfo di Lercara Friddi: «Non conoscevo il piatto, ma la parola “pitirri” sì. Si tratta di uno stato dello zolfo che si trova mescolato insieme ad altro materiale. Lo zolfo, infatti, non si trova mai puro in natura, ma sempre con impurità che lo colorano». Ciò spiega il perché dell’associazione del nome al piatto: il “pitirri” è, infatti, una minestra di semola di grano duro mescolato a erbe selvatiche, in particolare al finocchietto selvatico e ha un colore giallognolo, con striature di verde.
Fatima Giallombardo, docente di Antropologia culturale alla facoltà di Lettere e filosofia dell’Università di Palermo, ha realizzato uno studio sui piatti tipici siciliani pubblicato nel libro “La tavola, l’altare e la strada. Scenari del cibo in Sicilia” (Sellerio). Il pitirri non è stato studiato, ma Giallombardo riesce a ripercorrere un po’ la storia di questo piatto: «Trattandosi di una minestra povera si rifà alla tradizione del farro di retaggio romano. Probabilmente è stato importato dall’Africa proprio in epoca romana. È una semola, come il cous cous, ma diversamente da esso è cotta insieme al condimento e, comunque, è precedente da un punto di vista storico e non ha un trattamento di tipo arabo».
Una ricetta di 2000 anni, quindi, che Maria Gattuso, nel suo agriturismo Sorgente Refalzafi a Castronovo di Sicilia, (www.agriturismosorgenterefalzafi.it, tel. 091.8217369 – 333.8759362 – 339.7903771) ha ripreso: «È una ricetta semplice negli ingredienti – spiega – ma dalla lavorazione complicata. Occorrono acqua, sale, semola di grano duro e finocchietto selvatico. C’è chi aggiunge anche cipolla soffritta. Si può servire in due modi: la tradizione prevede che venga servito come zuppa, una vera e propria minestra dei poveri. La semplicità degli ingredienti ne ha fatto un piatto facile da realizzare, perché le poche cose che la campagna offriva erano il grano e le erbe, tra cui appunto il finocchietto che cresce spontaneo da gennaio e per tutta la primavera. Noi, però, abbiamo ripreso e rinnovato la ricetta e il pitirri lo friggiamo servendolo a pezzi: così è più gustoso».
Salvo Butera