IL LIBRO
Nel suo ultimo romanzo “Terre”, l'enologo Mario Paolo Falcetti dedica un brano all'Isola: una regione rigogliosa in cerca di riscatto
Vi racconto
la mia Sicilia
Pubblichiamo uno stralcio di “Terre”, il romanzo scritto dall’enologo Mario Falcetti per Food editore. Di seguito una parte del libro presentato all’ultimo Vinitaly e tratta dal nono capitolo: “Sicilia: Sale, Sole, Insolia”.
di Mario Falcetti
La Sicilia dell’infanzia è poco più di un triangolo di terra nel mezzo del Mediterraneo e di un vulcano ancora in attività che periodicamente sale alla ribalta della cronaca. I riferimenti essenziali. La Sicilia dell’adolescenza è una sequenza di immagini regalateci da Tomasi di Lampedusa, Pirandello, Sciascia, i classici della formazione scolastica. Storie d’altri tempi che raccontano di terre arse, di povertà, di onore, ma anche di nobiltà e di contesti da mille e una notte, di Terre del Gattopardo. Storie che raccontano di mafia, del bandito Giuliano, del ministro Scelba, storie in cui giudizio e pregiudizio, fatti ed opinioni si intrecciano al punto che risulta impossibile dipanarli. Una terra di emigranti sui piroscafi, di navi colme di vino da taglio destinato ad un illustre battesimo oltralpe, di uno Stretto da attraversare se la si vuol raggiungere. Un insieme di luoghi comuni difficili da interpretare come le immagini di là da un vetro smerigliato.
La Sicilia dell’età adulta è una terra generosa, a tratti rigogliosa, che prende consapevolezza del proprio destino, rivalutando un passato dove le culture sono approdate, si sono incrociate, incontrate, combattute, fuse e sedimentate tra loro. Fenici e cartaginesi, greci e romani, arabi e normanni, borboni e chissà quante etnie hanno penetrato l’isola-continente, lasciando retaggi evidenti e tangibili, prima delle attuali ondate di disperati approdanti a Lampedusa. Ma è soprattutto una terra intrisa di umanità, di identità, di volontà di riscatto. È centro magnetico che attrae e distingue alcuni degli arcipelaghi più incantevoli del Mare Nostrum: Eolie, Egadi, Pelagie, Ustica.
Sicilia è atterrare a Catania sorvolando il nero fumaiolo dell’Etna. Sicilia è atterrare a Palermo avvicinandosi fin quasi a sfiorare il promontorio di Punta Raisi. Sicilia è attraversare lo Stretto di Scilla e Cariddi. Sicilia è una terra contagiosa, dove l’esclamazione tipica è icona, marchio, distintivo di appartenenza. Dove la parola minchia trascende il suo significato letterale per assumere mille e più sfumature grazie al tono di voce e alla mimica facciale di chi la pronuncia. Sicilia un luogo dove la famiglia ha un’importanza tale da indurre una domanda, impraticata altrove: «a cu apparteni?» – a chi appartieni? Qual è la tua stirpe? – per identificare il ceppo d’origine, distinto da altri ad esso omonimi grazie ad una particolare e spesso folcloristica nciuria – il soprannome. Un insieme di immagini nitide a testimonianza di un legame che si intensifica giorno per giorno.
Ho conosciuto la Sicilia incrociando i volti e le storie di Antonio, Bruno, Giovanni, Lillo, Vincenzo ed altri giovani tecnici sul finire degli anni Ottanta, allorquando il Barone, che coltivava un’idea grandiosa – lanciare nel firmamento del vino italiano la sua terra – li mandò in Trentino per acquisire conoscenze e farsi le ossa. Il Barone, radicato alla sua Sicilia ma con la mente proiettata lontano, disponeva di vigne e uomini motivati, risorse ed aspettative ma aveva colto l’importanza di fare sistema [brutta espressione ripetuta più volte] per sanare l’atavico ritardo nel quale versava l’enologia dell’isola. Per ridurre velocemente il gap storico ricercò ed ottenne, con la mediazione e la benedizione dell’allora Ministro dell’Agricoltura, il supporto dell’Istituto di San Michele all’Adige. Furono anni di frequentazione assidua, formazione al nord, ricerca ed applicazione al sud. I risultati non tardarono ad arrivare e quel manipolo di uomini rappresentò il nucleo che ha animato il rinascimento enoico siciliano. Vigneti, cantine, laboratori, strutture di servizio presero forma per dare supporto ai numerosi progetti che si andavano plasmando a rappresentare il “braccio armato” della svolta. L’idea del Barone ha maturato i suoi frutti e oggi questa terra, dopo i miti di Piemonte e Toscana, è sicuramente il territorio da vino italiano più conosciuto e appetito all’estero. Da questa esperienza è nato qualcosa di profondo, sono sbocciate amicizie intense, come con Lillo, con cui condividere una nuova e Mirabile avventura. […] E dopo la visione, finalmente il percorso si compie: dall’idea al progetto, dall’intuizione alla realizzazione, in un crescendo di euforia contagiosa. Si crea la squadra, ancora una volta con Martino, si trovano le risorse necessarie, si parte, si soffre, si dubita, si spera, ma soprattutto si cerca la sintonia con il luogo: una, due, tre, quattro, cinque vendemmie in annate altrettanto dissimili, corrono via veloci, quasi si fossero consumate a pochi giorni di distanza. Il legame con il territorio è forte, ma per comprendere l’essenza dei vini che ne derivano bisogna coglierne la chiave di lettura, conoscere l’alfabeto in grado di rivelarci la lingua con cui la vite ci parla. Il codice – non è l’arcano Da Vinci – non si avviluppa secondo una recondita alchimia, ma è lì, presente, evidente, apparente spettatore del nostro agire. La chiave è nella natura, nella forma degli alberi plasmata dai venti, nella macchia mediterranea, negli arbusti dei chiappari girasoli, i capperi, nel colore e nel sapore degli ortaggi. Guardare, annusare, assaggiare ciò che ci circonda per intuire quali saranno le nuance del vino. Da questa lettura, come per incanto, l’insolia assume i profumi del ficodindia che già ti sembra di assaporare osservando la gamma di colori del frutto che si dipana dal giallo intenso al rosso porpora. Che sia la mia pianta? Una, due, tre, quattro, cinque vendemmie. I vini assumono sembianza, acquistano carattere ed identità, crescono in qualità ed iniziano a farsi conoscere e riconoscere. Siamo solo all’inizio di un itinerario che ci porterà lontano, dove il vino sarà il nostro Caronte.
Voglio creare dei vini che trasmettano le mie passioni, il mio amore per questa terra, la mia ennesima sfida. Vorrei fossero, oltre che lo specchio della mia anima, anche la cartina di tornasole del territorio: potente ma avvolgente, solare rinfrescato da brezze marine tonificanti, estremo ed essenziale, intrigante e generoso. Due vini, in special modo, hanno un significato particolare. Il Viognier, il vitigno bianco per eccellenza nella Côte du Rhone, un’area viticola tra le più affascinanti ed eterogenee d’Europa che non smette di esercitare su di me un fascino viscerale. È il vitigno che più di altri sente l’aria, oltre che la terra, quindi in Sicilia trova un ambiente di grande espressione. È sufficiente, infatti, spostarsi di qualche chilometro dietro un versante, salire in quota o allontanarsi dal mare per avere un quadro espressivo differente. Amo il Viognier perché mi permette di rendere il tributo che merita ad una crogiuolo di terroir che adoro: la vallée du Rhone.
Accanto al Viognier, il Tannat vuole essere un percorso di ricerca all’insegna dell’originalità. Il progetto, che mi accompagnerà per molti anni, e con cui vorrei leggere ed interpretare tale ostico vitigno, il cui nome, a ragione, è un presagio – nomen omen, direbbero i latini – e ne rammenta la caratteristica saliente: la tannicità. […]