IL PERSONAGGIO/2
Maurizio Pagano di Randazzo, sull’Etna, già a 6 anni ha mosso primi passi in vigna. Oggi è il braccio destro dell’enologo Foti e gestisce 30 ettari sulle pendici del vulcano
L’uomo dell’alberello
I primi passi in vigna li fa a 6 anni. Visita i suoi alberelli anticipando l’alba ogni giorno, tutto l’anno, alle 4 del mattino. La sua professione la porta addosso come un’investitura, datagli dal suo trisnonno, prima ancora che da suo nonno o per eredità diretta da suo padre. E’ l’unico, o meglio, ultimo tesoriere del sistema di allevamento ad alberello.
Nato a Randazzo, paesino sul versante nord dell’Etna, ha 45 anni, anagrafici però, perché la sua vera età si misura nei secoli di sapienza agronomica con cui cura ogni pianta. Non di un semplice viticoltore, parliamo di Maurizio Pagano, l’uomo dell’alberello.
Da otto anni segue i vigneti de i Vigneri come braccio destro dell’enologo produttore Salvo Foti. Sono trenta gli ettari che complessivamente oggi gestisce negli angoli più estremi della Sicilia, dalle terrazze dell’Etna, a quota 1300 metri di altezza, a quelle battute dai venti di Lipari. Infaticabile, noncurante del tam tam mediatico che lancia nel mondo il terroir etneo come grande scommessa e promessa enologica italiana, Maurizio, lavora nel silenzio che regna nel vigneto rompendolo ogni tanto per parlare con i suoi alberelli. “Io ci parlo con la vite e lei risponde. E’ così – ammette senza imbarazzo -. Sono nato in mezzo a loro. Sono la mia vita. L’alberello ce l’ho nel sangue. E’ un ricordo della mia infanzia. Grazie a Foti adesso posso dedicarmici così come hanno fatto gli uomini della mia famiglia”. Almeno fino a quando hanno potuto, fino 30 anni fa racconta, quando la maggior parte dei viticoltori ha deciso di estirpare per utilizzare il cordone speronato. “Quando venni a sapere che un enologo stava investendo per riportare l’alberello sull’Etna pensai: questo è pazzo. Significava ritornare a 300 anni prima, se non di più. Impresa folle, non solo perché non c’era più nessuno che lo utilizzava ma anche antieconomica”. Rispetto ad altri sistemi di allevamento che garantirebbero, infatti, maggiori rese al minor costo di gestione e manodopera, spiega. “L’alberello richiede che ci si prenda cura di ciascuna vite, e poi nell’impianto non si possono introdurre mezzi meccanici. Intervengono solo le mani e l’esperienza dell’uomo. Nemmeno irrighiamo. Cerchiamo solo di assecondare e aiutare la natura, poi fa tutto la pianta”. Più che un delicato compromesso con la vite è un vero atto di devozione che lei gli ripaga con frutti sani. “Il grappolo cresce bene. E si sente la differenza nel bicchiere, al bocato. Il merito sta proprio nel tipo di sistema. La vite è libera attorno a sé. Il sole gira attorno al grappolo. Non c’è mai una parte che non sia esposta ai raggi e che rimane marcia. Ciò significa anche azzerare i trattamenti. Questa è la differenza fondamentale con tutti gli altri sistemi di allevamento”, precisa Maurizio, anche con un po’ di rammarico su l’alberello . “Per praticare questo metodo bisogna essere più che convinti. Qui il lavoro è più duro. Si fa tutto manualmente. Lo si può fare solo se c’è passione, e se c’è quella la stanchezza non si sente. Però quanto è impagabile la gioia di mettere in cassetta un tipo di uva che ha una qualità ineguagliabile”. Gioia che Maurizio tenta di trasmettere ai figli, ancora piccolini, ma anche al consumatore stesso, quando si trova a fare da cicerone ai visitatori incuriositi dai tralci ultracentenari. “Il consumatore deve capire che il vino che facciamo noi ha un determinato costo, di fatica, di tempo. Che viene fatto prima di tutto in vigna e che non fa più nessuno”.
Manuela Laiacona