CIBO E STORIA
Di questo condimento parlava già Orazio. Rimasta limitata alle isole Egadi, invece, l’eccezionale brodo di aragosta
Così nacque
la pasta
con i ricci
I siciliani sono voracissimi consumatori di spaghetti accompagnati da tutti i tipi di pesce, frutti di mare e crostacei, soprattutto gamberi, cozze e vongole (particolarmente apprezzate quelle con la conchiglia più scura, dette “veraci”), ma anche con il nero di seppia, con la bottarga e con la neonata.
Molte nuove ricette sorgono continuamente: alcune recenti invenzioni (come quella con pescespada e melanzane) sono ormai diventate ovunque dei classici, mentre è finora generalmente rimasta limitata alle isole Egadi l’eccezionale pasta in brodo di aragosta.
L’introduzione della pasta con i ricci è relativamente recente, sebbene l’idea di farne una salsa sia in realtà antichissima: nelle Satire di Orazio apprendiamo che un certo «Curtillo mostrò il modo di insaporire la salsa con uova di ricci spaccati in due, e con il loro liquido che è migliore di qualsiasi salamoia». L’apoteosi del connubio fra pasta e pesce sono i celebri bucatini con sarde, un piatto che è stato definito altamente ecologico, giacché combina egregiamente due ingredienti poveri come le sarde e i finocchetti selvatici, e che per il suo aspetto scompigliato è anche chiamato pasta ca’ munnizza (“pasta con la spazzatura”) a Messina e a Catania.
Nato nelle cucine delle grandi famiglie nobiliari, il timballo di capellini è una sorta di corrispondente aristocratico agli anelletti al forno, e prevede abbondanti dosi di burro, un ingrediente totalmente mancante dalle tavole e dalle cucine dei siciliani fino alla fine del XVIII secolo. Il primo caseificio sorse a Partinico nel 1799 per volontà dei reali Ferdinando e Maria Carolina rifugiatisi in Sicilia da Napoli sotto la minaccia dell’esercito napoleonico; secondo i viaggiatori inglesi dell’800, Palermo era l’unica città siciliana dove si poteva trovare il burro. Riducendo drasticamente la quantità di salsa di pomodoro, e introducendo il burro, i “cuochi di casata” (o monsù, per corruzione dal francese monsieur) volevano senza dubbio distinguersi dai “cuochi di paglietta” al servizio dei ricchi borghesi. I monsù elaborarono una varietà impressionante di timballi e pasticci “di sostanza”, esemplare la celebre pièce de résistance del pranzo offerto dal principe Fabrizio nel Gattopardo; da parte loro i principi arrivarono a sfidarsi a duello pur di assicurare al proprio casato i servigi dei monsù più rinomati.
(2-continua)
Marcella Croce