Emozioni di Terra e di Mare di Pietro d'Agostino
La cena delle stelle? Non proprio, sarebbe limitativa.
E’ stato, invece un vero firmamento. Immenso, infinito, una sfera celeste dove a brillare sono state non le stelle Michelin ma le virtù dei cuochi, stellati e non, virtù anch’esse inesauribili. Tra pace celeste e tornado violenti. Quei tornado che spazzano ogni cosa e qui hanno fatto disperdere nel vuoto tutte le banalità, i luoghi comuni e le frasi fatte della cucina del terzo millennio: “massima attenzione alla qualità (è ormai perennemente scontata)”, “il pesce? sempre “freschissimo”, ci mancherebbe, “materie prime e prodotti dell’orto?”, a chilometro ”zero!”. Per carità, qui in questo menu, la distanza media delle materie uasate, l’ abbiamo calcolata in circa ottocento… chilometri! (la pasta di Gragnano, in gamberi di Mazara, il riso dall’Oltrepò, le erbe officinali dall’Olanda, il baccalà, da qualche oceano…”.
Poi qualcuno dell’associazione CHIC, organizzatrice della serata, ha presentato questi cuochi come un gruppo che “fa squadra”, “si confronta”, si scambia “idee ed esperienze… ecc.”. Balle anche queste! Ognuno ha lavorato sul “suo” piatto, mai uno sguardo rivolto al collega, né un assist, tutti concentrati a far confluire nel piatto la summa delle proprie esperienze, (che maturano con viaggi attorno al globo, alla scoperta di nuove cucine, di mondi e culture diverse, di umanità colte). Tutti concentrati e attenti affinché l’eccellenza si faccia perfezione, il gusto che si armonizzi e parli ai sensi con chiare ed esplicite parole e l’impatto visivo finale sia vorticoso.
Il top di queste situazioni è stato quando Pietrino D’Agostino, quello stellato del Capinera di Taormina, coll’immancabile grembiule nero che gli arrivava fino ai polpacci, si è piantato davanti ad un largo banco col piano d’acciaio, apparecchiato con tante piccole boule e ha concretizzato il suo “Emozioni di terra e mare”. Una vera “Lezione mediterranea” alla maniera di Italo Calvino, fedele persino nei suoi cinque capitoli, delle sue “Lezioni americane”: “Leggerezza, “Rapidità”, “Esattezza”, “Visibilità”, “Molteplicità”,… per capire come si coniugano in perfetta armonia cozze, seppie, calamari, cannolicchi, tonno, sgombro ,cernia, uova di lumaca, e… fiori eduli!
E anche vero che solo dopo aver spento i fornelli, che questi cuochi ritornano i compagnoni di una vita, studiano progetti assieme, e quando i loro volti si fanno distesi e il loro sorriso illumina ogni cosa, parlano di tutto compreso il successivo imminente evento da concretizzare. E il loro dopo-cena sì che diventa un vero simposio, una credibile riunione conviviale, un banchetto culturale tra amici e colleghi, dove con calice in mano si dilungano a discutere di argomenti di comune interesse e dove gli ingredienti immateriali, questi sì a chilometro zero, sono al centro del pensiero, del sentimento, della volontà, della coscienza morale, in un'unica parola della loro stessa anima. Insomma quella dell’ “Opson” di Taormina è stata comunque la cena che rispecchia fedelmente lo spirito dell’associazione Chic, una confederazione che avrebbe bisogno però di aggiornare la terminologia del suo spirito con definizioni, e parole nuove, adeguate alla crescita culturale espressa dai soci aderenti. Come dire: “se si guarda troppo fisso una stella, si perde di vista il firmamento”. Concetto chiave che ci spinge a descrivere i piatti, sperando che le parole riescano a creare le stessa suggestione che ha provato quel centinaio di avventori presenti all’Opson. Il preludio è stata la “La Finta pasta alla Norma” firmata dallo chef Carmelo Trentacosti, altro autore protagonista della serata del Grand Hotel Villa Igiea di Palermo. Pennette, in versione metafisica, non con la pasta di Gragnano ma con un frutto esotico, il mango, caviale e cracker mediterranei. Sintesi compiuta di tecnica, creatività e regionalità e un pizzico di esotismo. Anche Fabio Baldassarre dell'Opson di Taormina, padrone di casa, ha fatto sposare frutta e pesce con un “Anguria in ceviche di agrumi, carpione di baccalà e capperi. Espressione di una cucina che si agita tra due poli che non definiremmo opposti ma complementari: la filologia e l’avanguardia.
Vincenzo Candiano del bistellato “La Locanda di Don Serafino di Ragusa, invece, ha proposto un risotto con trippe di baccalà, piacintinu ennese e cress con pesto di sesamo nero. Espressione di una cucina che tutti conosciamo e apprezziamo. Come sempre a tratti laconica a tratti generosa, ma sempre spontanea nelle eruzioni della creatività e sotto la scorza rassicurante del territorio.
Non meno legato al suo territorio il salentino Sebastiano Lombardi di Relais “La sommità” di Ostuni con la “Ricciola in zuppa di pane, pomodoro cuore di bue, limone salato, intingolo alle alici e finocchio di mare”. Un piatto di grande personalità la cui disposizione visiva e gustativa di ingredienti e sapori, netti e distinti, è infatti il riconoscimento esplicito di filiazione, di provenienza, di emanazione.
La “Campania Felix”, cioè la prosperosa, la regione della pasta secca di Gragnano, dei pomodori San Marzano, della mozzarella di bufala Dop, del maialino nero casertano, l’ha rappresentata bene Paolo Barrale del “Marennà” a Sorbo Serpico con la “Sella di maialino, sorbe, indivia brasata e gel al mandarino”. Quello di Paolo Barale silente guru di una cucina meridionale è un pensiero che va alla ricerca di un gusto nella sua essenza primordiale, senza fronzoli, senza costrutti pleonastici ma finalizzata alla plurisensorialità.
Il dessert finale, riservato alla proposta di Stefano Masanti del “Cantinone” di Madesimo, una stella Michelin per un locale dalla classica conduzione familiare: Il “Blu Tonic” ovvero una mousse di ribes, con gelato allo yogurt e salsa rossa al vino. Esecuzione perfetta. D’altronde da un’ orchestra di chef così, seconda solo ai Berliner Philharmonisches Orchester, non ci si poteva aspettare di meglio
Stefano Gurrera