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L'iniziativa

Al Palazzo delle Esposizioni a Roma “Il cibo immaginario” in 20anni di pubblicità

03 Dicembre 2013
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Come sono cambiati gli italiani a tavola?

E come sono stati influenzati i loro consumi e stili di vita dalle pubblicità di cibi e bevande? Le risposte possono essere trovate lungo il percorso iconografico della mostra Il cibo immaginario, 1950-1970 pubblicità e immagini dell’Italia a Tavola, dal 3 dicembre al 6 gennaio 2014 al Palazzo delle Esposizioni di Roma, presentata ieri dal curatore della mostra Marco Panella, presidente Artix, insieme al critico televisivo Aldo Grasso, in collaborazione con Coca-Cola Italia, Gruppo Cremonini e Montana.


1952 Cinzano

Venti anni di storia italiana raccontati attraverso il linguaggio della pubblicità del cibo e dei riti del mangiare. Trecento immagini che restituiscono un pezzo di storia passata, vissuta o che si conosce perché tramandata da nonni e genitori. Il racconto di un’evoluzione non solo dei consumatori e dei media, ma dell’industria alimentare in generale, capace di possedere un potere evocativo ed emozionale che oggi ha forse un po’ perduto.


1967 il cibo e gli affetti straordinari

Le immagini, tra i marchi più conosciuti come Cirio, Barilla, Coca Cola, Fernet-Branca, Colussi, e Montana fino ai brand da rispolverare nella memoria come il Ghiacciomenta Elah, l’indimenticabile Idrolitina,  i formaggi Milkana e le Pastiglie Leone, raccontano l’Italia moderna che dalla Ricostruzione e il boom economico arriva agli anni ‘70, prima del crollo del sistema di Bretton Woods e della crisi energetica. Negli anni del dopoguerra la penisola, da sud a nord, era segnata dalla famee dalla ricerca, spesso affannosa del cibo. I prodotti principali erano quelli di primaria necessità come pane, farina, polenta e riso. La prima rivoluzione a tavola, in quel periodo, si ha con la pasta, che divenne ben presto simbolo dell’italianità: era l’inizio della lenta ricostruzione di un Paese.

Si arriva così al periodo dell’abbondanza: l’euforia e l’ottimismo degli anni Cinquanta hanno una chiara matrice americana e si possono ritrovano nelle donne formose e nelle tavole imbandite. Gli italiani, nel cibo e nei modi di mangiare, trovano un media fortissimo, ovvero una forma di linguaggio capace di emancipare anche a livello sociale. Non si mangia solo per bisogno, ma lo si fa perché sedotti dal linguaggio moderno della pubblicità e perché le tasche lo permettono (la propensione d’acquisto è infatti più alta).  

E oggi, che ruolo ricopre il cibo? In che modo ha inciso la crisi e perché questo boom di programmi televisivi dedicati all’arte culinaria? Sembra che tutti abbiano riscoperto l’arte della “buona” cucina: cooking show allestiti nelle più svariate location, corsi di cucina da seguire o regalare al partner (insieme al messaggio subliminale che spesso si cela dietro), reality in cui ci si sfida a “piattate”, in quella che lo stesso Aldo Grasso chiama “la grande abbuffata della tv”. Ma che nella realtà potrebbe invece voler esorcizzare la riduzione dei consumi, in quella ricerca forzata all’offerta contro qualsiasi tipo di spreco alimentare.
 
“Il cibo sta diventando un linguaggio da quando si è affrancato dalla sua funzione primordiale di sopravvivenza. – spiega il critico editorialista del Corriere della Sera -. Superata la fase atavica di Totò in “Miseria e Nobiltà”, quando si abbuffa di spaghetti e se li mette in tasca, oggi il cibo ha una funzione sociale che diventa segno distintivo e linguaggio in mezzo ad altri linguaggi. A questo è dovuto il boom delle trasmissioni di cucina. Imparare a cucinare certi cibi significa fare un salto qualitativo da quella che potremmo definire cucina “casalinga”. È  come imparare una nuova lingua e aver voglia, quindi, di comunicarla agli altri”.

Valentina Gravina