Hanno per nome un acronimo, Chic, ma fanno di tutto affinché questo non si scopra. Chic, ovvero Charming Italian Chef, da cui l’acronimo.
Un’associazione che riunisce un nutrito gruppo di giovani cuochi ristoratori italiani il cui fascino è espresso dall’altissimo livello di professionalità nel proporre, come ha spiegato il direttore di Chic Raffaele Geminiani, “una cucina che diventa espressione di un momento di aggregazione, scambio reciproco, messaggio educativo. E soprattutto uno strumento che può far crescere e apprezzare le qualità di un paese agli occhi di tutto il mondo”.
E mercoledì la rappresentanza di una decina di chef su sessantacinque iscritti, ha fatto tappa a Taormina innalzando il palco al “Grand Hotel Atlantis Bay”. Con dodici maschere recitanti, ovvero i cuochi ai fornelli, di cui sei rappresentavano altrettante regioni italiane e altri cinque come i declinatori del territorio ospitante. Padroni di casa, e declinatori della Sicilia, cinque “giovani” chef navigati, stellati, e già celebrati come icone della cucina siciliana. Accursio Craparo dell “Gazza ladra” di Modica, Giuseppe Costa del “Bavaglino” di Terrasini, e tre taorminesi, Franco Raneri del G.H. Mazzarò Sea Palace, Pietro D’Agostino (nella foto in alto) del “Capinera” e Giuseppe Ponticello, “ultimo germoglio di una antica stirpe di maestri di cucina” ed executive chef dell’Atlantis Bay.
Giuseppe Costa con un gesto che richiama la “Milano da bere” contamina il suo “Crudo di gamberi rossi di Mazzara” con uno spruzzo di Campari. Il tosco-campano Giuseppe Mancino nato a Sarno (Sa) titolare del “Piccolo Principe” di Viareggio tradisce il suo sammarzano nella “Parmigiana di spatola e bufala campana” aggiungendo “pomodorini di Pachino”. Domenica Vagnarelli del ristorante “Mediterraneo” di Alba Adriatica, abruzzese, spolverizza, con un ricalco palermitano, ovvero “cca’ muddica”, i suoi paccheri con le acciughe”. Il milanese Fabio Baldassarre del ristorante “Unico” non disdegna il pistacchio di Bronte per la sua “Terrina di nervetti con gazpacho”. L’Irpino Carmine Calò del ristorante “Salviatino” di Firenze, omaggia i laziali reatini con l’ “Uovo all’Amatriciana”.
Insalata di gamberoni con cipollotto, arance
e crema di mandorle pizzute di Avola
Fedeli al territorio e refrattari alle “corruzioni regionali” gli altri quattro siciliani. Pietro D’Agostino ha faticato a marginare le richieste di bis alla sua “Minestra di pesce e crostacei con chicche di pasta fresca ai pistilli di zafferano ennese”; Giuseppe Ponticello coerente sia con l’antipasto (“Coda di mazzancolla in paglia e fieno croccante con moussoline di mandorla di Avola) che col dessert: “Panzerotto di pane con ricotta di pecora alle arance velato al miele di castagne”. Accursio Capraro coerentemente in linea ha presentato uno dei suoi must: “Cannellone di pasta lievitata con gamberi, ricotta, zafferano e corteccia di zucchina”.
Cannellone di pasta lievitata con gamberi,
ricotta, zafferano e corteccia di zucchina di Accursio Craparo
Infine Giuseppe Costa con la sua “Nuvola di cassata” che in verità si tradisce ma senza tanti peccati, usando un sifone da tecnologia del terzo millennio. Per chiudere col dessert di Franco Raneri, che rimedia a un default. Perché col suo “Raviolo di Pesca con mousse di ricotta, cioccolato modicano e ristretto al Nero d’Avola” fa entrare in scena, ma solo “ristrettamente” il principe dei vitigni siciliani. La serata sarà infatti ricordata come il “Trionfo dei bianchi siciliani”. Da cui spiccavano espressioni come lo spumante metodo classico da uve bianche sicilianissime, del Federico II di Milazzo, degli autoctoni Grillo dell’igt “Lalùci” del Baglio di Cristo e del “Keiré” della “Tenuta Gorghi Tondi”, il Catarratto dell azienda Castellucci Miano e il nuovo doc dell’Etna bianco di Cottanera. Ma la serata va letta come una prima pagina scritta di una cucina italiana che si va modellando come un modello unitario, codificato in regole precise come il carattere espresso dal menù di questa serata. Con la sua “rete” di saperi e di pratiche come reciproca conoscenza di prodotti e di ricette provenienti da città e regioni diverse. Che sancisce come questo stile culinario “italiano” che ha caratterizzato la serata esiste fin dal medio evo. E non è solo la somma di diverse culture regionali.
Stefano Gurrera