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L'evento

Le dieci maschere di Gaja

09 Giugno 2011
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La cronaca dell’incontro con il produttore a Palermo. “Ecco quello che ho visto e vissuto dopo 50 anni di attività”

Le dieci facce di Angelo Gaja. Un fiume in piena. Un recital di tre ore da grande mattatore.

Gli avevano arredato un boudoir. Con al centro uno scranno. Lo ha dribblato, ed è evaso dal salotto per guadagnarsi il proscenio, parlare in piedi e sfiorare le ginocchia di chi s’era seduto in prima fila. Alto, liscio, di quindici anni in meno la sua apparente età biologica. Abito di sartoria, blu, da duemila euro, impeccabile, camicia bianca aperta, senza cravatta. Un parterre selezionatissimo. José Rallo e Giuseppe Benanti in prima fila. In seconda i Tasca e in terza i Planeta. Docenti universitari e giornalisti di prestigiose testate confusi nelle restanti file tra gli altri produttori di ogni provincia. Gli avevano assegnato un tema: “Vino: passato e futuro…”, figuriamoci; evaso anche da lì. Il tempo si è fermato per tre ore, né passato né futuro, un’atmosfera magica, di sospensione, mai disturbata dal volo di una mosca, né un colpo di tosse a infastidire il suo allegro, forbito scilinguagnolo e la sua divertita e felicissima proprietà linguistica. Che a volte virava verso la severità notarile se l’argomento cadeva sui flagelli dell’enologia italiana. Vedi alla voce “metanolo”, oppure “contributi europei, a pioggia”.
Dieci facce, dieci figure professionali, meglio dieci maschere, che di volta in volta cambia per soddisfare la voglia “di raccontare, dopo 50 anni di attività, quello che ho visto e ho vissuto”. La prima di queste maschere è quella dell’umanista. L’uomo al centro del mondo, e della sua vita: il nonno, il papà, gli amici, Tachis e Veronelli, Mondavi, per citarne solo alcuni della sua umana, personale e chilometrica galleria. Ognuno, di questi personaggi, sede di tappa di un percorso professionale sviluppatosi in costante senso ascensionale. Seconda maschera lo “storico”: «negli anni ‘70 nel nord si producevano vini fragili, acidità eccellente, gradazione alcolica troppo bassa. Poi si verificò la “fortunatissima disgrazia del metanolo” e si aprì l’era del rinascimento enologico, non solo nel nostro Piemonte ma in tutta Italia». Quella del vigneron è stata, tra le maschere, la più affascinante, ha spaziato dalla celebrazione «dell’utilizzo con buon senso» della barrique , alla rivoluzione in vigna per conquistare l’eccellenza». Poi ha vestito i panni dell’economista moderno e, aperto un file e supportato dai grafici, ha sviluppato una forbita analisi dei mercati mondiali. Un piccolo frangente: «Vedete come è interessante il mercato americano, abbiamo superato la Francia, mentre quello cinese rimane per noi italiani ancora ostico quasi impenetrabile, tuttavia promettente se si useranno gli strumenti adeguati». ? passata, come un fiat, quasi un’ora, comincia a rompersi il silenzio, qualcuno bisbiglia « non ha ancora parlato dei suoi vini?». Pare lo recepisca ed ecco l’annuncio: «Ora vi mostrerò due etichette!». Ci siamo, parlerà del “Sorì San Lorenzo” o del suo “Barbaresco”? Delusione. Compaiono quella del “Sassicaia” e quella del “Tignanello”, due supertuscan. Sarà tutto, Gaja, tranne che un partigiano. Il tempo di dismettere i panni dell’economista e indossare la toga del docente di sociologia. Per spiegare il senso di due etichette, e la loro “catalogazione”, tutta giocata su “la psicologia del consumatore”. Perché questi autentici gioielli dell’enologia italiana «sono nati come “Vini da tavola”, una definizione, studiata per loro, e funzionale per vincere la soggezione che provava, a quei tempi, il consumatore dinnanzi alle Doc e alle Docg. Una politica per stimolare il consumo di qualità e iniziare a diffondere cultura del vino. Un plauso ad Antinori, che l’ha coniata, e sposata da Incisa della Rocchetta». Ed è anche un monito alla Sicilia: «le denominazioni, come la Doc Sicilia, servono a poco, come dimostrato e potrebbe provocare disorientamento». Come dire «è la semplicità che funziona». E fornisce l’esempio di Parker. Che al linguaggio colto e forbito dei critici e dei wine writer inglesi il guru americano ha opposto la “solitudine dei numeri primi”. Ovvero una “sola” cifra per giudicare il vino. Facile, così, stabilire che un vino dal punteggio “96” è più buono di un vino da “82”. Poi Gaja ha continuato con la morale, il liberismo, la fede. E la religione del vino, con i suoi comandamenti, stilati tra sentimento e modernità :perdono e tolleranza; inglese e mercato; racconto del vino e la sua dignità; più internet e meno tv; aggregazioni e riti d’impresa, più letture classiche.
«I miei vini? Di là nell’altra sala – conclude – Sono pronti al vostro giudizio. E al confronto con i vostri gioielli siciliani». «E quasi ne ho paura» ha sussurrato, con un’espressione appena accennata. Anzi totalmente coperta da un fragorosissimo, lungo e meritato applauso.

Stefano Gurrera