(Joan Roca)
di Alessandra Meldolesi
È stata un’occasione imperdibile, quella servita da Joan Roca a Bologna: un menu completo del Celler de Can Roca, approntato in gran parte da suoi cuochi (l’aereo dalla Spagna è arrivato carico di 8 gironesi e di ben poche basi) su un piatto altrettanto speciale.
Niente argento, ma le ceramiche di Joan Crous, visionario artista e organizzatore dell’evento. Nato anch’egli a Girona, per una strana coincidenza lo stesso giorno e lo stesso anno, ha avuto gioco facile in questa ospitalità a tre stelle. Ma il suo progetto è più vasto: si chiama “7 Tavole” ed è composto di altrettanti pranzi e cene con cuochi del calibro di Aurora Mazzucchelli e Antonia Klugmann, Pier Giorgio Parini e Gianluca Gorini, Entiana Osmenzeza e Cristiano Tomei. I proventi andranno tutti in beneficenza, nella fattispecie per la formazione alla cucina di 5 ragazzi provenienti da situazioni di disagio.
(Aurora Mazzucchelli)
Anche lo scenario è inconsueto: le 7 tavole vengono apparecchiate presso lo Spazio Battirame, nell’estrema periferia di Bologna, in quello che è stato a lungo un centro sociale. Crous ne ha ottenuto la gestione nel 2014 e vi ha basato la sua cooperativa sociale Eta Beta insieme alla moglie Giovanna Bubbico. L’attività è diversificata: ci sono un capannone per la produzione di ceramiche e oggetti in vetro (Crous ha studiato storia medioevale e storia dell’alimentazione con il professor Montanari, ma ha anche frequentato l’accademia e praticato le arti del fuoco per botteghe), l’orto coltivato con metodo biologico (cha ha fornito parte degli ortaggi ai cuochi) e soprattutto due cucine Zanussi, una grande al piano terra, l’altra più piccola per le finiture nella sala da pranzo. Che però non ha certo l’interior design di un gastronomico.
L’impegno da parte di Roca e dei suoi è stato massimo: il grande chef si è adoperato lungo tutto il pranzo nella piccola cucina a vista; ma la preparazione è durata due giorni. In sala ad affiancarlo c’era Davide Nurra, cameriere sardo in forze al Celler da 10 anni, che è stato prodigo di spiegazioni in italiano e ha mesciuto vini di cooperative catalane.
L’introduzione è stata la stessa del Celler: Comerse el mundo (che in spagnolo sta per realizzarsi), serie di 5 intensi bocconi rappresentativi di diverse nazioni. Quindi per la Thailandia il pollo con cocco, coriandolo, curry rosso e lime; per il Giappone la crema di miso con nyinyonyaki; per il Perù una torta di patata detta causa limeña; per la Turchia il mini kebab; per la Corea il pane fritto con panko e pancetta, salsa di soia, kimchi e olio di sesamo. Tutti disposti sotto una cloche simile a una lanterna cinese a forma di globo, scoperchiata al tavolo.
Il Celler infatti è un teatro. Vedi anche il secondo invio di stuzzichini: Memorie di un bar poco fuori Girona, altri 5 assaggi presentati all’interno di un diorama tridimensionale raffigurante il locale di famiglia alla mano, dove i tre ragazzini (effigiati in bianco e nero) si sono fatti (e sbucciati) le ossa. Nell’ordine un parfait di piccione, il calamaro pastoso con la pastella croccante a crumble, il bonbon di Campari, il cannellone di mamma Montserrat e uno strepitoso rognone disidratato al Madeira dal gusto esplosivo nella paradossale testura di meringa. Il flashback in piena regola da cui si diparte la narrazione, articolata per procedimenti oltre che per gusto. Perché al Celler gli anni zero non sono mai finiti. La tecnica colpisce anzi al cuore del sentimento, come voleva la definizione di tecno-emozionale coniata dal critico Pau Arenos: “Hacia la emocion, y mas allà, con la ayuda de la tecnica y la tecnologia”.
È dapprincipio la volta del fumo, a lungo oggetto di studio dei Roca. Quindi il letto di purea di castagne con agrumi e funghi su una pellicola forata, sotto la quale bruciano tizzoni che affumicano con misura e costanza.
Poi lo sgombro marinato in sale e zucchero, servito con classica salsa al vino bianco, purè di acciughe alle olive nere, soffritto di pomodoro e bottarga, per un gusto mediterraneo raggiunto attraverso tecniche molecolari nascoste.
Ma lascia il segno soprattutto il besugo dalla suggestiva presentazione a camouflage: sul filetto, accompagnato da un fondo intenso e centrato, è stesa una lamina di sanfaina, la ratatouille catalana, che rievoca i mosaici di Dalì insieme ai costumi di Arlecchino.
Molto classica (almeno all’apparenza) la spalla di vitello, cotta sottovuoto e glassata nel suo fondo come un dessert, con la guarnizione di funghi, nervetti e avocado. Perché l’accademia è il contrappeso dell’avanguardia sul filo teso del Celler.
Ancora tecnica nei dessert: per la precisione l’enfleurage, ovvero l’estrazione dei profumi attraverso macerazione nel grasso solido e successiva distillazione. Quindi il dolce lattico dedicato alla pecora di razza catalana, assemblato come una verticalizzazione di sfumature: il gelato al latte, la spuma di cagliata leggermente sapida, lo yogurt e lo zucchero filato; a fianco, per il divertimento e il correlativo esperienziale, un cono di essenza di pecora ricavato dalla lana, per un nitido sentore di stalla.
E ancora il Vecchio libro dedicato a Proust, con il suo millefoglie, o forse millefogli, di ostia stampata e biscotto, gelato di madeleine e crema al tè nero. Dove il topos della bibliofagia sposa il naturale desiderio di bevande nervine a fine pasto.