C’è un’altra guerra in contemporanea alle altre 30 sparse in tutto il mondo: quella della lotta alle mafie.
Lo dice senza girarci attorno don Luigi Ciotti, fondatore dell’associazione Libera, alla presentazione di Sana Slow Wine Fair in corso a Bologna. Le mafie ormai, “sono globalizzate”. Seppur sia vero che restano le “forme tradizionali”, le mafie ormai si sono evolute. Per dirla alla don Ciotti “hanno fatto il salto di qualità”. Ma il mondo pare non accorgersi di queste cose: “C’è una normalizzazione – dice – Mafia, corruzione, droga, usura, sono cose normali oggi e quindi non fanno notizia. Ma le mafie stanno sempre di più prendendo campo”. E c’è un settore che sta diventando oggetto di desiderio della criminalità organizzata: “L’agricoltura – dice don Ciotti – Un problema che ci riguarda tutti. Le mafie sono più forti di prima. E la tempesta del Covid ha creato in questi due anni una nuova variante: la criminalità”. La questione riguarda anche l’aspetto economico: “Loro hanno troppi soldi, tantissimi, da riciclare – dice – Arrivano e si prendono quello che vogliono. Togliamoci dalla testa l’immagine arcaica del boss. Oggi sono manager, fanno impresa”. Ma non tutto è perduto. “In questi anni siamo riusciti a far passare la legge sulla confisca dei beni mafiosi che poi diventano luoghi di legalità, di ristrutturazione sociale, di cooperative dei giovani che si impegnano a coltivare quelle terre per fargli dare frutti reali”. E cita la cantina CentoPassi di San Giuseppe Jato in provincia di Palermo “come esempio di meraviglia di quello che siamo stati in grado di fare”. I beni sottratti ai grandi boss che vengono restituiti alla collettività “e i prodotti fatti hanno una vitamina in più, che si chiama legalità o giustizia”. Poi capitolo caporalato: “I dati sono inquietanti – dice – su questo che io definico lavoro da schiavo. Ma purtroppo i controlli sono davvero troppo pochi. E il problema è grave. Andrebbe modificata la legge che spinge i poveri migranti ad accettare qualunque cosa, a genuflettersi alle richieste di questi “padroni” pur di avere un lavoro e di poter rimanere in Italia”.
Giorgio Vaiana, Bologna