A Casteltermini, in provincia di Agrigento, nelle terre dello zolfo, Sergio Genuardi affonda letteralmente le radici nel gesso. Giovane enologo, viticultore nonché produttore dei vini che portano il suo nome, dopo gli studi in Viticoltura ed Enologia a Marsala e Asti e diverse esperienze in Italia e all’estero, rientra in una delle zone della Sicilia dove l’agricoltura ha lasciato spazio per tanti anni alle miniere, fucine di miseria e nobiltà di cui resta traccia tangibile nell’entroterra oltre che fra le pagine della letteratura italiana. Di quella Sicilia che non esiste più, ma che ha influenzato l’economia locale anche dopo la dismissione delle zolfare, ne traccia un breve racconto lo stesso produttore, per meglio spiegare in seguito le peculiarità di questo particolare areale gessoso solfifero che interessa ampiamente la parte centro meridionale della regione: “Nel nostro territorio non esistono aziende vitivinicole, se non nell’arco di pochi chilometri, questo paese non ha agricoltura perché si era adagiato in passato sull’industria delle miniere di zolfo, le miniere più importanti di Sicilia e di Italia come quella di Cozzo Disi. Questo comportò l’abbandono delle terre che andarono a finire nelle mani di gente dei paesi limitrofi. Si viveva bene, si dice che Casteltermini fosse una piccola Palermo. Il dopo miniera, negli anni ’70, invece, fu davvero tragico per l’economia. Non si lavorava praticamente più poiché molti sopravvissero e vissero nel benessere grazie alle somme di denaro importanti che furono corrisposte a seguito della dismissione delle miniere. Questo significò che spesso anche i figli di quegli operai pensionati si adagiarono e non si impegnarono in nessuna attività. La difficoltà più grande, oggi, è recuperare quei terreni un tempo abbandonati, venduti e destinati oggi ad attività come la pastorizia”.
Genuardi non è un “figlio d’arte”, non ha nessun legame familiare che lo lega alla terra se non l’interesse per il vino che dopo l’istituto alberghiero lo spinge a studiare e iniziare esperienze formative e professionali che spaziano dalla Sicilia, come Feudo Arancio e Cos, alla Toscana per Tenuta Meraviglia a Montalcino, passando per Romania, Spagna, Portogallo. Quel primordiale interesse oggi si declina in una grande consapevolezza, frutto di studio e fondamenta scientifiche, attraverso il racconto di cosa oggi significhi fare viticoltura ed essere enologo: “Se non c’è vigna non vuol dire che non si può fare, che non si possa creare una storia. Sono ritornato a Casteltermini perché non mi riuscivo a capacitare del motivo per cui qui non si potesse fare vino. Dove mi trovo io ci sono in realtà tanti piccolissimi palmenti di montagna, di poco più di 30 metri quadrati, segno che seppur per uso domestico il vino si produceva in un tempo lontano. Lavoro su una vigna in affitto di poco più di un ettaro che conoscevo e lavoravo già. Non volevo un vino che macchiasse il bicchiere o qualcosa di banale. Il vino è espressione di te stesso. Tutto è nato dal mio istinto”.
Il Nero d’Avola “Salgemma”, prima etichetta 2021, che prende il nome proprio dal cristallino minerale è la referenza più rappresentativa. Lontano dall’opulenza e dall’elegante austerità delle vicine interpretazioni territoriali Salgemma è un Nero d’Avola espressione di una vigna impiantata nel gesso. Un vino unico nel suo genere, dal colore brillante come la salgemma al sole, poliedrico al naso come pochi, offre al palato un frutto croccante dal sapore di salsedine dove freschezza e trama tannica si integrano perfettamente. “Non avevo esempi da seguire se non il mio istinto. Il vigneto si trova a 650 metri sopra il livello del mare e il terreno dove lavoro io è proprio bianco, il suolo è gessoso solfifero con tantissima presenza di salgemma. Lavoro tantissimo in vigna seguendo il più possibile un’agricoltura sostenibile nel rispetto della biodiversità, delle piante e di tutti gli essere viventi. Non pratico concimazioni e provo a essere legato al territorio anche attraverso l’utilizzo dello zolfo delle zone vicine come quello di Lercara Friddi. La macerazione in cantina è breve, volevo un vino non banale, riconoscibile uno di quelli da bere scorrevolmente, con una componente di acidità importante che smorzasse l’alcol. Credo che abbia un profilo organolettico riconoscibile da tutti gli altri Nero d’Avola prodotti in questa zona. Abbiamo a che fare con madre natura, ma cerco sempre di migliorarmi. Mi sono confrontato con amici del settore e professionisti in questo ambito, sono abbastanza sicuro non cercavo conferme ma sicuramente sono migliorato stando a contatto con altre persone preparate partecipando anche alle prime fiere come Terruar”.
Un vino “pulito” si direbbe ad alcuni appuntamenti dedicati a quelli che vengono etichettati come “vini naturali”. Un’etichetta alla quale siamo abituati e che non convince neanche Angiolino Maule, presidente Vinnatur, intervistato nel 2021 da Titti Casiello per Cronache di Gusto, secondo il quale allo stato attuale delle cose, in assenza di un disciplinare e sistemi di controllo risulta difficile darne una definizione (leggi questo articolo>).
Più che una definizione “naturale” appare come un contenitore che include sia i sostenitori del difetto come qualità che i viticoltori attenti al rispetto innanzitutto del proprio lavoro. In tal senso Genuardi tiene a precisare: “Non mi sono mai dato un’etichetta, non dico che produco vini naturali. Questa parola “naturale” credo sia riduttiva, sembra che tutto si faccia da solo, forse meglio dire etico? A chi viene al mio banchetto io dico quello che faccio, ma non che sono naturale. Ridurre tutto in questo termine è sbagliato. Dobbiamo raccontare quello che facciamo. Il vino non si fa da solo. Se nascesse un dibattito per confrontarci io ne sarei felice, la mia non vuole essere una critica. Vorrei solo che chi si impegna a produrre un vino autentico non sia banalizzato. Io passo 15 ore in vigna per ottenere un qualcosa che mi permetta di lavorare serenamente per produrre qualcosa di qualità. Rispetto e poto la vigna secondo le sue caratteristiche, travaso nel momento giusto, sto attento alla biodiversità. Sono fiero di essere un enologo prima di essere produttore, tutto quello che faccio l’ho studiato, a volte si fanno le cose senza criterio. Alla base della “naturalità” dovrebbero esserci il rispetto dell’ambiente e della persona. Ci sono province dove l’obiettivo è lavorare il suolo in maniera esaustiva, ma ci sono posti dove le piante stanno morendo e le radici non camminano più. Stiamo banalizzando il nostro lavoro. La vigna è come un uomo, risponde a quello che fai. Dobbiamo lavorare con coscienza, e questo lavoro va raccontato dalla a alla z”.
Questa chiara e forte identità si riflette in vini di grande personalità che rispecchiano quella componente gessosa di cui poco o nulla ancora si conosce in Sicilia dalla cifra stilistica organolettica ben definita e di cui in futuro se ne sentirà parlare. Vale per Salgemma come per il “Pietraissu” da Perricone, “Lunarìa” da Catarratto e il Rosato da Nero d’Avola. La produzione si attesta su un totale di 6.000 bottiglie, destinate a un mercato per lo più siciliano per volere dello stesso produttore e coltivato grazie alla sua costante presenza in appuntamenti con operatori del settore e contatti personali soprattutto nelle provincie di Palermo e Catania. Per degustatori e appassionati i vini del gesso di Sergio Genuardi rappresentano una novità nel panorama siciliano e se ne sentirà parlare. Così come del gesso, oggetto d’attenzione per diversi studiosi così come si legge dagli Atti del convegno “Via dei gessi siciliana” presentata a Caltanissetta a cura di Marina Castiglione e Giuseppe Giugno nel 2019 (leggi qui>).
Azienda Agricola Sergio Genuardi
Contrada Serre – Casteltermini (AG)
www.sergiogenuardi.it