“Io ho sempre ascoltato, per questo ho imparato tante cose”. E di cose, Natalino Del Prete – energico vignaiolo salentino – arrivato alla soglia di 76 anni ne ha imparate davvero tante. Occhi vispi e azzurri in una cornice segnata da una moltitudine di rughe, forse una per ogni vendemmia. “Lavoro da quando ero un bambino. Tutti i miei zii volevano che andassi in campagna ad aiutarli perché ero il più svelto”. Ma se svelto lo era, svelto lo è ancora: lo si intravede in quel guizzo che lo illumina mentre racconta della sua vita salentina. A San Donaci, in quella parte della Puglia che diventa Lu Salentu e che passando per le terre che hanno alimentato l’amore medio italiano di Albano e Romina a Cellino San Marco annega, poi, nell’Adriatico. Questa è la terra delle masserie bianche e degli uliveti sterminati in una vista sempre pianeggiante, intervallata ogni tanto solo dalle così dette “gobbe”: piccoli rilievi collinari che ricordano che qui siamo in Salento tra il suo caldo asfittico estivo e le sue piogge irruente e mai preannunciate.
Ed è in questa suggestione di colori e odori che le viti di Natalino Del Prete, di Negroamaro, Malvasia Nera, Primitivo del Salento e Aleatico sembrano essere fatte di artigianalità e di cesellature, rammentando un vino molto lontano da quelle citazioni onnipresenti di fruttuosità e morbidezza. “Pensa che anni fa ad una fiera una signora mi chiese un Primitivo dolce. E io le dissi “Signora, ma il Primitivo dolce non esiste. Quello non è un Primitivo fatto in vigna, è fatto solo in cantina. Ecco vedi lo sbaglio madornale della Puglia è stato questo: fare vino in cantina. E le persone hanno creduto che fosse questo il vino pugliese. Ma io certe cose non le faccio”. E’ agli anni ’80 che si riferisce Natalino, quando la Puglia si apprestava a diventare il più grande contenitore e vuotatore dell’Italia del vino, mentre lui, invece, iniziava la sua personale salvaguardia del suolo, dell’ambiente e dei vitigni autoctoni (per arrivare poi nel ’94 in una conversione oggi interamente biologica). Erano cioè gli anni dei volumi, delle cantine sociali, dei vini del nord rifocillati dai vitigni del sud e dei vini del sud da ritoccare qua e là per levigare tannini ispidi e alcolicità esasperanti. Erano però quegli stessi anni e con le stesse varietà con le quali, invece, Natalino faceva un “altro” vino e che ancora oggi – su 13 ettari vitati – sfiora poco meno di 15.000 bottiglie all’anno.
“Mi chiamavano matto perché volevo fare il vino del Salento” mentre gli altri invece volevano fare soldi con il Salento. Eppure quella stessa pazzia gli è valsa, nel ’99, il premio come miglior vino biologico d’Italia. A parlar di premi, medaglie e onori al merito, Natalino, però, sembra esserne del tutto disinteressato. Vignaiolo di vigna piuttosto che di palchi e fiere con i suoi vini silenziosi che stanno sul mercato senza alcuna smania di prepotenza. Nel 2002 è stato anche insignito con la medaglia di Cavaliere del lavoro “ma non sono andata a ritirarla. C’era troppo da fare in vigna quell’anno. A me, poi, i riconoscimenti non servono. Serve solo la qualità, questo è la cosa più importante. Perché non è con i soldi in tasca che si fanno le cose, ma è con l’impegno. Se lavori bene e hai uva sana, in cantina non hai bisogno di niente che non sia una botte, una pigiatrice e tanta buona volontà”.
Esiliati, quindi, i prodotti sistemici a Natalino non restano che vitamine e decotti naturali per curare le sue vigne: “Sono disposto a perdere tutta l’uva piuttosto che usare la chimica. Se piove, poi, è impossibile fare questi tipi di trattamenti. E allora capita che perdo l’intero raccolto, e se lo perdo, il vino di sicuro non lo faccio”. Quanto poi è successo nel 2014, dove a casa Del Prete non si imbottigliò neppure una damigiana. “Perché io sono fatto per il bene comune”. Ed è proprio questo stesso principio che l’ha portato ad essere, anche, uno dei primi soci-produttori di VinNatur, l’associazione di Angiolino Maule. “Sono fedele a Maule, ai principi dell’associazione e li condivido, ma come in ogni comunità penso che ci siano ancora tante cose che si possono e si devono migliorare”. E in questa lotta all’omologazione, da un decennio e poco più, a fare qualità al suo fianco c’è anche Mina, sua figlia, parte vivissima dell’azienda. Anche se di lasciare le redini Natalino non ne vuole sapere: “Sono vecchio, ma se sto lontano dalle vigne sono morto. Stavo comprando un nuovo vigneto qualche anno fa, poi Mina e mia moglie mi hanno fermato” – ride sorridendo e con una sottile linea di rammarico negli occhi per non averlo fatto. “Mina, comunque, mi ascolta, come io ascoltavo chi mi ha preceduto”. E lei, che sembra aver trovato lo stesso linguaggio e lo stesso tono di suo padre, persegue in una gestione della vigna e della cantina dallo stampo intensamente territoriale. La parola che ne viene fuori dai vini di Natalino Del Prete è inequivocabile ed apertamente diretta: è l’immagine di una Puglia schiva e senza fronzoli. Quella parte della Puglia che ancora stenta, però, a cantare in coro.