(Edwin Botterman, amministratore delegato di Heineken)
da Milano, Michele Pizzillo
Dal prossimo anno saranno sette le birre regionali prodotte da Moretti. Alle quattro (siciliana, piemontese, friulana, toscana) “nate quest’anno dalla volontà di dare valore agli asset fondamentali dell’identità italiana – dicono al quartier generale di Heineken, la multinazionale olandese che ha acquisito il controllo di Birra Moretti nel 1996 -: le tipicità della cultura agroalimentare locale e gli ingredienti caratterizzanti regionali” se ne aggiungeranno altre tre.
E, in occasione della presentazione del libro, presso la sede del Corriere della Sera, “Qualcosa di bello” (editore Rizzoli) scritto dal presidente di Assobirra Piero Perron e dal responsabile dei rapporti istituzionali di Heineken Alfredo Pratolongo per raccontare i quarant’anni di presenza del gruppo olandese in Italia, siamo riusciti ad “estorcere” ad un paio di manager del gruppo, il nome di due delle tre regioni interessate, perché si sono bloccati quando hanno scoperto di rivelare il segreto ad un giornalista. Le prime due regioni dovrebbero essere la Calabria per una birra aromatizzata dal succo di fico d’India e la Basilicata per una birra alle erbe.
Il libro di Perron e Pratolongo è un testo fondamentale per conoscere l’importanza dell’industria della birra per l’economia italiana (annualmente versa oltre 5 miliardi di euro di tasse nelle casse dello Stato) e fare un excursus della presenza di Heineken nel nostro Paese, che risale al 1974, con l’acquisizione di Birra Deher che contava circa 2.000 collaboratori e 4 birrifici distribuiti sul territorio nazionale. D’allora la corsa della multinazionale olandese è stata inarrestabile, visto che con una quota di mercato pari al 29% e un fatturato di 943 milioni di euro generato dalla produzione e commercializzazione di 5,3 milioni di ettolitri di birra, è il primo produttore di birra del nostro Paese. Dopo Dreher, nel 1986 Heineken ha acquistato la birra Ichnusa a cui seguirà, tre anni dopo, il controllo del birrificio di Pollein, in Valle d’Aosta, e via via altri marchi italiani prima di arrivare a Birra Moretti nel 1996 che, probabilmente, ha permesso ad Heineken di identificarsi come prodotto italiano.
(Le regionali di Birra Moretti)
D’altronde l’88% delle forniture sono acquistate da imprese con sede in Italia: l’86,5% dei tappi, il 90% delle bottiglie, il 100% dei cartoni. Senza sottovalutare che nel 2010 Heineken ha avviato un piano di sostenibilità che in cinque anni ha permesso di ridurre del 38% il consumo di acqua (qualcosa come 15,5 milioni di ettolitri di acqua), meno 55% di emissioni di anidride carbonica nelle fasi di produzione, ha installato 8.136 pannelli solari nei birrifici di Comun Nuovo (2,454 milioni di ettolitri di birra prodotti nel 2014 e per l’82% venduta in Lombardia) e in Puglia, a Massafra (1,736 milioni di ettolitri la produzione), approvvigionandosi di energia totalmente da fonti rinnovabili, 3.500 i refrigeratori e gli impianti di spillatura ecologici installati nei punti di consumo e circa 200.000 le persone contattate e sensibilizzate sui temi del bere responsabile.
La lettura di un libro come questo offre anche molti spunti di riflessione per fare, volendo, paragoni con altri settori dell’agroalimentare italiano. La comunicazione, per esempio. Chi non ricorda Renzo Arbore testimonial della birra? Secondo Perron fu una scelta geniale che oltre a fare raddoppiare il consumo di birra, permise pure di dimostrare che è una bevanda naturale, ottenuta da materie prime italiane come l’orzo e i due-terzi di luppolo. A questo punto si inserisce Confagricoltura con il suo presidente Mario Guidi che afferma: “Siamo pronti a dare il nostro contributo ad una filiera della birra interamente sostenibile; dalle materie prime (orzo e mais), fino alla bottiglia acquistata dal consumatore. Heineken può essere un partner fondamentale in questo percorso, dove la collaborazione tra agricoltura e industria è fondamentale, dato che il 70% della birra venduta e consumata in Italia è di produzione nazionale”. Aggiungendo che “c’è ancora spazio per migliorare il nostro contributo ad una filiera della birra tutta italiana.
Per il luppolo, che finora arriva tutto dall’estero, ci stiamo attrezzando insieme ad Assobirra con un progetto di selezione e caratterizzazione di varietà adatte ad essere coltivate in Italia”.
Nel frattempo la birra si è vista aprire le porte anche dei ristoranti. “Ricordo che la birra non aveva un accesso facile nella ristorazione – dice Claudio Sadler, due stelle Michelin con il suo Sadler -. Poi la birra l’abbiamo smembrata, introdotta in cucina e, infine, assicuratogli la dignità che merita nella carta che una volta era riservata solo ai vini”. Tutto questo grazie alla comunicazione, azzeccata, prima; poi “la buona politica di sostenibilità che vuol dire fare stare bene la gente” aggiunge Pratolongo; infine, la capacità di saperla abbinare ai piatti tradizionali italiani. Mentre l’amministratore delegato da Heineken Italia, Edwin Botterman, evidenzia che nei suoi quarant’anni di attività qui da noi, la sua azienda “ha saputo innovare sposando la tradizione. Chi non si rinnova non cresce, non investe, non offre lavoro”. E, aggiunge: noi investiamo, oltre 500 milioni di euro nel 2014, perché crediamo nel made in Italy tant’è che vogliamo esportare quantitativi superiori agli attuali due milioni di ettolitri di birra prodotta in Italia per diffondere nel mondo il gusto delle eccellenze italiane e con esse la cultura del bere e del mangiare bene”.