Giornale online di enogastronomia • Direttore Fabrizio Carrera
L'azienda

Dal mondo della moda alle anfore, la storia del produttore armeno che ha scommesso tutto a quota 1400

04 Febbraio 2014
armeniavinoZenith-8369 armeniavinoZenith-8369

di Francesca Ciancio

Ora Noè, coltivatore della terra, cominciò a piantare una vigna. Avendo bevuto il vino, si ubriacò e giacque scoperto all'interno della sua tenda” (Genesi 9-20-21). La “splendida cornice” è il Monte Ararat, oggi è in territorio turco, ma proprio sul confine con l’Armenia.

 La storia dell’arca e di Noè primo vignaiolo la conosciamo un po’ tutti. Non scomodiamo ancora le Sacre Scritture per commentare un assaggio. Però il Karasì di Zorah Wines è proprio buono. E’ un vino emblematico, nel senso che ha tutto quello che serve per scrivere un articolo (poi dopo averlo finito, mi direte se valeva la pena leggerlo): una bella beva, una bella storia, luoghi antichi, voglia di futuro.

Zorik Gharibian è un imprenditore della moda innamorato del vino. Origini armene e figlio della diaspora dovuta al genocidio della popolazione compiuto dai turchi agli inizi del ‘900 del secolo scorso. Nasce e cresce infatti in Siria, dove la sua famiglia si trasferisce. Studia a Venezia, presso il collegio armeno e inizia poi a girare il mondo. Spesso è in Italia, non solo per affari, ma perché è affascinato dalla cultura del vino la Toscana è la meta prediletta e approfitta dei week end per visitare vigne e cantine. Zorik vuole fare vino, non solo berlo e apprezzarlo, ma dove? “La Toscana sì bella, ma cara”.

Sono gli anni anche del disfacimento dell’Unione Sovietica e coincidono con il suo primo viaggio in Armenia. Si fa vino anche lì, ma bisogna partire da zero. Eppure ogni cosa parlava di uva: i monasteri erano pieni di raffigurazioni legate alla vigna e si dice che da qui partisse il vino per gli Assiri. Per la nomenclatura sovietica però il vino lo facevano i georgiani, agli armeni toccava il cognac. Insomma, mancava il know how. E qui entra in gioco di nuovo l’Italia e la Toscana.

Delle analisi dei terreni se ne occupa il professore di Viticoltura della Statale di Milano Attilio Scienza, l’agronomo che segue i lavori è il bolgherese Stefano Bartolomei, l’enologo è Alberto Antonini, le informazioni sulle anfore d’argilla si raccolgono all’Impruneta. La scelta cade sulla zona di Rind, 40 ettari di terreno, 9 vitati, a 1.400 metri di altezza. Vitivinicoltura di montagna? Non proprio: si tratta di un altopiano, poca acqua, scarsa umidità, escursioni termiche importanti, d’estate si raggiungono i 35 gradi (la latitudine è quella di Napoli e Barcellona), ma soprattutto inquinamento zero, aria tersa, tantissima luce, perfetta per una fotosintesi ottimale. La vendemmia è tra la metà e la fine di ottobre. Il terreno, di matrice sabbiosa, è ricco di pietre e limo. Gli impianti sono stati realizzati ex novo, ma partendo da selezioni massali di antichi vitigni prefillossera (in realtà qui la malattia non è mai arrivata). Il vigneto è un corpo unico perché Zorik non voleva comprare dai contadini e così ha acquistato un terreno abbandonato che era la riserva agricola del villaggio di Rind (neanche 1.500 abitanti).

Ricordate una missione internazionale di qualche anno fa che portò alla scoperta nel villaggio di Areni, in Armenia, della più antica cantina del mondo? Ecco, Zorah Wines è poco distante. E avere la responsabilità di portare avanti un lavoro che ha seimila anni di storia non è cosa da tutti. Intanto Zorik pensa a una scuola delle anfore da creare nel villaggio e poi a un cru di Areni che nascerà. La ricerca di nuova terra lo ha portato ancora più su, a 1.650 metri, dove più che un vigneto, ha trovato una selva di alberelli antichissimi – vecchi anche 250 anni – che daranno poco meno di 3.000 bottiglie. Si lavora anche a un bianco, un blend di uve autoctone. Uscita prevista nel 2016.

Ora c’è da parlare del vino. Karasì 2011 (in armeno “da anfora”) è fatto con Areni Noir in purezza. Un terzo affina in acciaio, un altro in botte grande e l’ultimo in anfora. Dopo il blend si passa a sei mesi in bottiglia. Il colore è di un bel rubino brillante, con accenni di viola; al naso ha frutta calibrata dal floreale, entrambi portano sensazioni di freschezza, con ricordi di erba di montagna. Prevalgono note primarie che non sono compromesse dall’uso del legno, che invece risulta ben dosato. La beva è pulita e ha tannini setosi, rispetta le aspettative dettate dal naso e colpisce per un finale pepato. Bella anche la chiosa di sottobosco. Manca un po’ di persistenza e lunghezza, ma ha tutti numeri per mostrasi tenace in futuro. Zarakì, 20/25 mila bottiglie. Distribuito in Italia da Cuzziol. Costo in enoteca 22/25 euro circa.