di Simone Cantoni
Prendi due frutti apparentemente distanti, in base a una stretta regola di stagionalità, ma che, a veder bene, data la loro agevole conservabilità, possono veder incrociarsi i rispettivi periodi di consumo lungo un po’ tutto l’arco dell’anno.
Cosa succede a metterli insieme? Succede che salta fuori una ricetta da potersi approntare e gustare sostanzialmente in qualsiasi momento, nel coso dei 12 mesi. Come dire, un “sempreverde”: e sarà un caso, ma quello è appunto il colore del piatto di cui stiamo per parlare. Andiamo dunque al punto e vediamoli, gli ingredienti protagonisti della pietanza che è al centro della nostra attenzione. Da un lato le nocciole che, raccolte in autunno, possono poi essere sgusciate, così come tostate, e comunque sono rese sempre disponibili in forma di frutta secca. Dall’altro lato i piselli, prelevati in campo a primavera, ma a loro volta confezionati per surgelamento o essiccazione: ergo utilizzabili a piacimento. Ecco, le une e gli altri s’incontrano, nel nostro caso, abbracciandosi in una cremosa vellutata.
GENESI E “RADIOGRAFIA” DEL PIATTO
Di facile preparazione, la vellutata arriva in tavola al termine di un percorso “gestazionale” che abbiamo sintetizzato come segue. In un pentolino, stufare del porro (tagliato a fettine) in acqua ed extravergine d’oliva. Versare ulteriore acqua e dei pisellini surgelati, quindi portare a ebollizione e mantenere sulla fiamma per una decina di minuti. Aggiungere un pizzico di sale, poi frullare il tutto con yogurt e olio. Tritare delle nocciole tostate e deporle sulla superficie della crema uscita dal mixer, rifinire (volendo) con un ultimo “ricciolo” d’olio e impiattare. Alla “prova del cucchiaio” il composto rivela una consistenza fluida, con tuttavia ovvie componenti di croccantezza; un’altrettanta ovvia pastosità amidacea e grassa; un gusto prevalentemente dolce; una profumazione intonata primariamente alla nota erbacea dei legumi e a quella biscottata del frutto in guscio. Insomma, un temperamento tutto sommato accessibile, in chiave di abbinamento: che infatti abbiamo voluto provare con tre tipologie birrarie (tutte di ascendenza britannica) al contrario non così facili da “piazzare” nel gioco delle combinazioni…
CON LA DARK MILD
Partenza di basso profilo alcolico: i 2.4 gradi della “Mild oh mild”, una Dark Mild di color bruno firmata (a Trento) dalla “Passion Brewery”. Una “pinta” piuttosto fedele nell’interpretare le peculiarità dello stile di riferimento: in particolare dotata di un “telaio strutturale” (tenuto in piedi da corporatura e zuccheri residui) che è davvero esile; e che dunque tende a “scoprire” le parti dure della sorsata – amaricatura (sebbene le IBU siano appena 18), acidità, impressioni di astringenza – finendo così col farla risultare un po’ “ossuta”. Ebbene, il piatto agiste esattamente in compensazione, con le proprie parti morbide, sull’esiguità di quelle messe in campo dalla birra. La quale dunque guadagna in equilibrio; e se fa qualche fatica nel “corpo a corpo” col boccone (in particolare nella gestione dei suoi contenuti amidaceo-lipidici), tuttavia alla fine porta a casa la “partita palatale”; mentre le sue tostature (orzo in tazza, prugna, cioccolato e nocciola) assecondano le dominanti olfattive della vellutata.
CON LA BITTER
Regole d’ingaggio non dissimili sono quelle che il piatto stabilisce anche con la seconda birra: la “Tuvixeddu” del “Birrificio di Cagliari”. Una Bitter; per l’esattezza un’interpretazione che gioca tra le linee di due sottostili della propria tipologia di riferimento: la “Ordinary Bitter” e la “Best Bitter”. Al di là delle sottigliezze inerenti alle questioni di classificazione, la bevuta (di color ramato e aspetto pulito), vede di nuovo le sue contundenze amaricanti (peraltro relative: 45 le IBU) “smussarsi gli spigoli” nel contatto con gli spessori amicaceo-grassi del boccone; mentre questi ultimi avvertono più incisivamente il morso “sgrassante” della sorsata, cui contribuisce un grado alcolico (4.5) che non è di per sé “abrasivo”, ma corrisponde a quasi il doppio rispetto al valore espresso dalla Mild. Infine, sotto il profilo olfattivo, il bicchiere, con le sue trame (un tocco di mela e di tabacco, ma soprattutto tanto biscotto e tanta nocciola), ancora una volta intercetta le tostature della vellutata e si allinea al loro dettato odoroso.
CON LA AMBER ALE
Classificazione in parte generica, quella di Amber Ale – applicata alla “Foxtail” dal suo produttore, il marchio “Birra del Bosco” di San Michele all’Adige (Trento) – indica comunque un’ascendenza britannica. Nel Regno Unito, lungo tutto l’Ottocento, non di rado Bitter e Pale Ale venivano designate appunto come Amber; inoltre l’isola vicina, l’Irlanda, già dal 1710 aveva visto la salita in scena della propria interpretazione di quel canovaccio cromatico, la Irish Red Ale. Il perimetro di riferimento è dunque quello: all’interno di tale “steccato” troviamo la collocazione della bevuta protagonista del terzo abbinamento. Una bevuta meno amara della seconda (27 le IBU); e contemporaneamente più alcolica rispetto sia alla stessa seconda sia alla prima (5.6 i gradi alcolici). E dunque una sorsata che fa salire tanto i parametri relativi alle proprie parti morbide tanto quelli concernenti le capacità di gestione della massa amidacea e grassa del boccone: determinando – in un quadro di spinte e controspinte sostanzialmente affini a quelle registrati nel corso dei primi due test – un miglioramento dei principali meccanismi di collimazione e compensazione tra piatto e boccone.
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