di Simone Cantoni
Nel percorso di affermazione diffusa, sulle tavole italiane, degli alimenti di origine animale da consumarsi crudi, un ruolo di spicco – se non altro per la funzione di “apripista” che questo piatto, insieme ad altri, ha esercitato nell’ambito di tale processo – spetta senza dubbio alla “tartàre” (alla francese) o “tàrtara”, in italiano.
Ovvero quella porzione di carne o pesce da prepararsi, appunto senza cottura, sottoponendola a una fine triturazione (con un coltello, se non mediante una macinatrice, manuale o elettrica), per poi arricchirla con guarniture varie e diverse, più o meno articolate.
TARTÀRE: UN NOME, UNA STORIA
La “vulgata” prevalente circa l’origine del termine lo collega agli usi e costumi in vigore fra i tartari: popolazione proveniente dall’Asia centrale (dove la sua presenza è documentata già nel V secolo d.C.) e migrata poi verso ovest, spostandosi lungo le grandi pianure russe; una gente poco o niente stanziale, la cui attitudine al nomadismo, non concedendo tempo per cucinare, induceva ad adottare soluzioni quali, ad esempio, quella di sistemare la carne essiccata sotto le selle dei cavalli, così da ammorbidirla e renderla pronta per il pasto in qualsiasi momento. Ecco, sebbene l’etimologia sia discussa, questa ricostruzione ha il pregio indubbio di essere ben rappresentativa circa il significato attuale del sostantivo “tartàre” e della ricetta che ad esso corrisponde.
UNA, CENTO, MILLE TARTÀRE
Come si è detto, l’elemento di base, ovvero la carne cruda (sia essa di terra o di mare), dà luogo a un’ampia quantità d’interpretazioni, ottenibili in fase di condimento: con salse (maionese, senape, alla rucola, al curry…); con contorni (cipolle, peperoni, pomodori, ortaggi in genere); con guarniture liquide (aceto anche balsamico, olio, succo di agrume…); e anche con ingredienti “comprimari”. La versione attorno alla quale “lavoriamo” in questa sede prevede di predisporre una tartàre di manzo (magari una varietà ben innervata di grasso, come quella delle diverse razze bovine giapponesi ricomprese sotto la designazione di “Wagyu”); per accompagnarla con un tuorlo d’uovo e un filo d’olio aromatizzato al limone, senza ricorrere a sale e pepe, bensì affidando la sapidità del piatto a quella naturale della carne stessa. Una scelta in virtù della quale il boccone – oltre a una consistenza morbida e a un più che discreto equipaggiamento lipidico – verrà ad avere una tendenza gustativa neutro-dolce e una direzione olfattiva guidata dalla freschezza del limone poc’anzi citato. Ed ecco, come, a fronte di una simile intelaiatura organolettica, ci si è mossi in abbinamento: adottando tre diverse soluzioni.
CON LA PILS
Si parte senza impatti frontali eccessivi, ma, da subito, sapendo (in virtù della rinuncia al sale nella confezione del piatto) di poter “osare” l’abbinamento con birre dotate di amaricature anche nette, anche incisive, giacché queste ultime non troveranno sulla loro strada elementi di potenziale ostacolo o conflitto. Così la prima opzione “convoca” in campo una Pils: la “Pepita”, etichetta fra quelle storiche nella gamma toscana di “Mostodolce” (a Vaiano, in provincia di Prato). La sorsata, dorata nel colore, risulta smilza nei fondamentali (corpo leggero, alcol sui 4.8); quindi fatica un po’ nell’aggredire il nucleo grasso del boccone: ma comunque la spunta, grazie alla bollicina ficcante e alla secchezza affilata. Inoltre la sua connotazione olfattiva dai tratti erbacei, minerali e floreali di timbro anche lievemente citrico, asseconda in continuità lineare quella della tartàre.
CON LA SAISON
Si cresce d’intensità nel “corpo a corpo”. Sul ring sale la “Quadro”, una Saison dal colore dorato e dai 6.4 gradi alcolici, forgiata a Folgaria (Trento) nelle officine “Barbaforte”, sulla base di una ricetta che, in miscela secca, si avvale anche di frumento; e che in bollitura prevede l’impiego di coriandolo, buccia d’arancia, radice di rafano e di genziana. Di nuovo abbiamo una bevuta nitdamente amaricante che non rischia frizioni con sapidità significative (in quanto assenti) da parte del boccone; e una sorsata il cui sviluppo, in questo caso, vibra anche di bella acidulità: prerogativa che, saldandosi con una carbonazione aitante e con una taglia etilica in aumento (rispetto al primo round), facilità la gestione della massa lipidica di carne e uovo. Interessanti, poi, anche le mutate “regole d’ingaggio” tra le direzioni olfattive espresse dal piatto e quelle tracciate dal bicchiere: agrumate le prime quanto le seconde (benché la birra, nel suo ventaglio odoroso abbia anche altro: pepe, fiori di sambuco, pera e banana mature); e tale affinità aromatica d’insieme produce una piacevole continuità odorosa nella sequenza tra morso e sorso.
CON L’AMERICAN IPA
Sparisce l’acidulo dalla costruzione gustativa della birra, ma aumenta ulteriormente l’energia nel premere sul pedale dell’amaro e dell’alcol. Queste le premesse a introdurre la terza e ultima prova d’abbinamento: che chiama in scena la “Sbrega”, una Double IPA (sui 7.5 gradi) firmata, a Chiuro (Sondrio), dal marchio valtellinese “Pintalpina”. Assai efficace il suo lavoro sugli spessori lipidici del boccone, in virtù dell’appena citato slancio etilico, saldato con una carbonazione levigata ma energica; e ancora una volta, accattivante risulta l’intreccio fra le traccianti olfattive del patto e quelle di una sorsata che, accanto a sensazioni fruttato-tropicali (mango e uva spina), offre correnti agrumate (pompelmo) accomunate da un’evidente familiarità con quelle dell’olio aromatizzato al limone…
BIRRIFICIO MOSTODOLCE
Via Val di Bisenzio, 138/A – Vaiano (Prato)
T. 0574 577030
info@mostodolce.it
www.mostodolce.it
BIRRIFICIO BARBAFORTE
Via XXV Aprile, 51 – Folgaria (Trento)
T. 335 6936486
info@barbaforte.it
www.barbaforte.it
BIRRIFICIO PINTALPINA
SS 38, via Stelvio, 9 – Chiuro (Sondrio)
T. 340 5235430
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