di Alessandra Meldolesi
Ciak, si mangia. All’Uovodiseppia, ambasciata isolana a Milano, la cantina Tornatore ha proiettato il film di una Sicilia “tuttecose”, dalle dune di Licata ai filari in alta quota.
Azienda storica dell’Etna (l’inizio della produzione risale al 1865, sempre nelle mani della stessa famiglia), oggi vanta la maggiore estensione in assoluto sul vulcano. Sono cento ettari di terra, tutti nel comune di Castiglione di Sicilia sul versante nord, con spazio per uliveto e noccioleto e una riconversione al biologico in dirittura d’arrivo. La scelta non poteva rivelarsi più azzeccata: l’Uovodiseppia non è uno spin-off come un altro, ma un’insegna sincerissima e perfino rivelatrice. Il tepore neodomestico della cucina di Pino Cuttaia, già ispiratore di un piccolo miracolo gourmet, è qui, se possibile, ancor più affabile che nella nativa Licata in provincia di Agrigento: “Lo stellato mi dà il rigore, ma qui mi sento trasparente, senza ostentazioni. La chiamerei una professionalità invisibile”, spiega lo chef con voce lenta e calma, che sembra accarezzare l’interlocutore. Lo ripete da tempo, del resto, che il cuoco deve essere un po’ mamma. “Voglio liberare gli ingredienti dalla tecnica per riconsegnare loro amore e rispetto, per restituire al cibo la poesia dei sapori perduti, l’emozione dei ricordi e il calore dei gesti conosciuti”. Una pausa ancor più defaticante, visto che fuori dal guscio ottanio e oro Milano corre e fattura a rotta di collo. Cuttaia già conosceva i vini Tornatore, che aveva portato al G7 di Catania. “Per me sono uno dei prodotti di punta dell’Etna. Dicono sia la nuova Borgogna e sono convinto che resti tanto da esplorare, anche sotto il profilo dell’invecchiamento. Amo in particolare il nerello mascalese, che mi ricorda il pinot nero”.
Folgorante, nell’aperitivo con gli spumanti della casa, Sole e vento, che va in tavola anche alla Madia. Enigmatico alla vista, con le sue macchie di colore naïf, si compone di extravergine U Trappitu di Ciccio Pellegrino da biancolilla e nocellara, estratto di pomodoro datterino fatto in casa e una grattata di bottarga di tonno. Senza tracce di cucina. Piuttosto anticucina, o forse pre-cucina, nel delineare un flavour principle della cucina siciliana, assemblaggio di ingredienti esatti (l’extravergine frizzante di vegetale e amarotico di carciofo, l’estratto cremoso come un pralinato, la bottarga sapida e marina) che sprigiona un gusto impattante, per così dire à rebours. Un po’ pane cunzato in absentia, che veste di ignoto quanto di più familiare, facendolo sentire in modo nuovo. Un po’ degustazione d’extravergine a inizio pasto, per preparare lo stomaco insieme alla mente. Con qualche reminiscenza dell’avanguardia di Paolo Lopriore, che servì a suo tempo il primo pelato tal quale, ma un senso che va oltre in chiave di ribellione anti-tecnica. Quasi ad aprire la dispensa di casa in una forma arrendevole di cucina passiva, oltre l’ego del cuoco.
Poi alcuni piatti della Madia, che non avendo più posto in carta, si sono spostati al bistrot. Il Tiepido di Mare è una variazione ittica di Memoria visiva, che rievoca la fettina a bagnomaria delle mamme siciliane: un piatto di conforto, imperfezionista per definizione. In questo caso si tratta di pescato del giorno, dentice o branzino, servito a carpaccio con un condimento di carciofi, cucinato nel piatto in salamandra per un profumo domestico, esaltato dal bouquet “semplice e bello” di aglio e prezzemolo. “Perché il mare può diventare anche caldo”.
Arriva dalla Madia anche il Macco di fave con gnocchetti di calamaro. “Un piatto tradizionale, tipico di San Giuseppe, quando in primavera si passava dai legumi secchi a quelli freschi. Le ricorrenze religiose un tempo servivano pure per svuotare le dispense, come la cuccia a Santa Lucia”. La vista inganna con il cromatismo verde, che lascia supporre fave fresche, mentre si tratta di clorofilla di finocchietto selvatico; poi ci sono gli gnocchetti di seppia o calamaro, secondo il pescato, sorta di bignè di sola polpa frullata e spadellata al momento, per la crosticina croccante, che nobilitano la minestra secondo un classico copione italiano, evocando al tempo stesso una nostalgica quenelle alla francese.
La Linguina al nero di seppia è proposta come filologia comanda. “Un piatto della tradizione, che pochi fanno in casa”.
E siccome quella della Madia è una cucina “panitaliana”, che dalla Sicilia esplora altre regioni, non manca la Spigola in crosta di sale, cucinata già porzionata, non nella consueta versione conviviale, su una padella antiaderente sopra un impasto di sale e albumi. Dal lato della pelle il calore sale e quando la polpa scolora, è pronta. Sul piatto con la classica insalatina di arance.
Chiude la Cornucopia di cialda di cannolo e ricotta Passalacqua, altro tuffo di testa nella tradizione. “Cornucopia come simbolo di abbondanza e generosità, ma anche cono da mangiare con le mani. Ed essendo un dolce al cucchiaio, la scorza può essere più sottile e più friabile”.
A mescere c’era il nisseno Santo Scaduto, beverage manager dell’Uovodiseppia. Amministra una carta siciliana per l’80%, premiata per la sezione bistrot alla Wine Week, che spazia dagli storici alle nicchie, passando per tanto Etna. Di comune accordo con la famiglia Tornatore, ha preferito non predisporre abbinamenti, affiancando piuttosto sul tavolo i bianchi e i rossi a scelta. L’intera gamma era presente e ha ispirato pairing convincenti come quello fra il Pietrarizzo e il Tiepido di Mare o l’Etna Bianco e il macco. Al pranzo era presente anche Gabriele Gorelli, Master of Wine 2021: “Tornatore è ancora un new comer sull’Etna, visto che i primi vini imbottigliati risalgono al 2014, dopo che per decenni le uve sono state conferite ai migliori, ma tenendo sempre le posizioni, senza vendere. Quando poi è arrivato, ha portato un Etna che non c’era, pulito, raffinato, non troppo angolare. Rossi più suadenti e maturi, dati da vigneti in equilibrio, non sovrasfruttati, che hanno convinto il mercato. Sui bianchi poi il lavoro è stato impressionante. Considerato che veniamo da un annus horribilis per i rossi, un bianco distintivo serve più che mai. E l’Etna ha tutte le caratteristiche per essere riconosciuto anche all’estero. Per il lunedì di Vinitaly ho in agenda una degustazione sull’identity capital dei bianchi italiani, dove ho inserito il Pietrarizzo, il più verticale e vibrante della casa, quello che esprime al meglio il territorio, l’austerità dell’Etna senza le fenolicità di cui viene accusato. Gli anglosassoni ci hanno sempre rimproverato di produrre bianchi senza identità, immaturi, puntati esclusivamente sulla freschezza, ma adesso stiamo acquisendo una migliore espressione di frutto e territorio. È un percorso in itinere, che esprime una nuova visione grazie a vitigni autoctoni e ancestrali”.