di Alessandra Meldolesi
Ogni secondo, nel mondo, qualcuno fa saltare un tappo di Moët & Chandon.
Basta questo per avere grossomodo un’idea di cosa sia la maison di Épernay, icona del “savoir-fête” prima che del savoir-faire. Un ritmo che probabilmente neppure il Covid-19 è riuscito a inceppare. “Perché il vino va avanti, l’uva continua a maturare, qualsiasi cosa succeda. E il 2020 non farà eccezione”. Le bottiglie prodotte ogni anno sono più di 24 milioni e si vendono in tutto il mondo, mercati emergenti compresi. Ma non c’è trade-off tra quantità e qualità, prestigio e business. Merito di una lunga storia, che ha decantato affetti, e di una strategia di marketing accorta e pervasiva, perennemente all’erta. Se la nave ammiraglia dello Champagne punta sul rosé, allora, è probabile cambino rotta in tanti. Fondata nel 1743, lo produce almeno dal 1794, quando era chiamato “rozé”, e gli archivi raccontano che Napoleone con la madre Letizia ne ordinò 100 bottiglie. Un tempo era raro, perché il clima rigido inibiva la compiuta maturazione delle uve rosse, necessarie per l’assemblaggio con cui veniva tradizionalmente prodotto. Ma i cambiamenti climatici hanno trasformato il quadro. Oggi lo Champagne rosé, assicurano gli sherpa, non è più una bevanda femminile, ma convince sempre più agli appassionati, sia per l’aperitivo che a tutto pasto grazie alla sua versatilità. Tanto che le vendite mostrano il segno “+” in tutto il mondo.
(Benoît Gouez, chef de cave di Moët & Chandon durante la degustazione)
Benoît Gouez, chef de cave dal 2005, riassume così in una degustazione su Zoom lo stile della casa: “fruttato brillante”, come un cesto di frutti croccanti; “palato seducente”, ovvero generoso ma leggero; “maturità elegante”, grazie alle note biscottate e non solo portate dai lieviti. Il risultato è una piacevolezza immediata, più pop che snob. “Non produciamo vini intellettuali, ma vini emozionali. Siamo qui per rendere felici le persone”. Rispetto alla moda delle bollicine super secche, il dosaggio ancora si sente, ma è stato ridotto negli ultimi anni da 13-14 a 7-9 grammi per litro, mentre è cresciuta la permanenza sui lieviti. “A me piace parlare di vin operé, perché è come una chirurgia, in cui il vino viene aiutato a riprendersi dallo shock ossidativo della sboccatura”. Altro trend, appunto, l’ascesa dei rosé che in 20 anni sono passati dal 2 al 20% della produzione della casa, contro il 10% della denominazione. “Oltre ai cambiamenti climatici, sono mutate le tecniche di vinificazione, per esempio la termovinificazione, che consiste nello scaldare gli acini, per fare esplodere le cellule in modo che rilascino colore e aromi, prima della macerazione a freddo e della pigiatura. Un’esclusiva di Moët”.
C’è il Rosé Impérial, creato nel 1996: è contraddistinto dal coprotagonismo del pinot meunier, pari al 40% dell’assemblaggio, che apporta una maggiore rotondità. Il top di gamma tuttavia è il Grand Vintage Rosé 2012, ottenuto da uve proprie provenienti da premiers crus e grands crus. “A sedurmi nella vendemmia è stata la maturità del pinot meunier, salito nell’assemblaggio dall’11% del Grand Vintage 2009 al 23%. Evoca in me il passaggio dalla primavera all’estate, da profumi inebrianti a note più profonde. Una via di mezzo fra i vintage 2008 e 2009, dominati rispettivamente dall’acidità e dalla maturità, questa volta sotto il segno dell’equilibrio”. E gli abbinamenti scavallano volentieri le Alpi: la casa con il suo resident chef Marco Fadiga ha messo a punto un metodo che consiste in 6 punti, fra cui le cotture. Lo Champagne si abbina preferibilmente a ingredienti crudi o rare, per fragranza e consistenze: in questo caso una caprese o perfino una succulenta bistecca alla fiorentina, grazie a vinosità e tannini.